Africa Twin Emilia Romagna       



 

COSI’ PARLO’ ZARATHUSHTRA

viaggio di 4 moto sulle strade

dell’antico impero persiano

* Estate 2004 *

   le foto le trovate qui

Venerdì 23 luglio 2004, finalmente il grande giorno è arrivato. La meta di quest’anno è sicuramente insolita: l’Iran.

La passione mia e di Enzo sono i paesi del Medio Oriente e Nord Africa: dopo aver visto Marocco, Tunisia, Egitto, Israele, Siria, Giordania e Turchia, bisognava trovare una nuova meta interessante. E così è scaturita l’idea originale: la Persia, sulle tracce di Ciro il Grande, di Dario, di Serse, di Zarathushtra e del loro misterioso dio Ahura Mazda.

Abbiamo riunito il gruppo dello scorso anno (col quale abbiamo fatto un bellissimo viaggio in Siria e Giordania): Tiziano Gianuzzi di Como, tecnico informatico, su Honda Varadero, Enrico Marziali e Sarah Nittoli di Macerata, lui meccanico e lei studentessa di lingue, su Honda Shadow, tutti e tre conosciuti tramite una nostra inserzione su Mototurismo lo scorso anno, e Gianni Campo, cugino di Enzo, restauratore, di Ragusa, su BMW GS 1150 Adventure, per il quale invece è la prima esperienza su un viaggio così impegnativo.  Poi ci siamo noi: la scrivente, Flavia Corsini, e Enzo Schininà, di Bologna, entrambi bancari, su HONDA AFRICA TWIN.

Una nota particolare e divertente: la Honda Shadow di Enrico è tutta areografata a stelle e strisce come la bandiera americana, e in più sul serbatoio fa bella mostra di sé la statua della Libertà. È bellissima a vedersi, però, visti i rapporti non proprio amichevoli tra Iran e Stati Uniti, Enrico ha completamente ricoperto la moto con plastica adesiva di un anonimo colore grigio! L’effetto è piuttosto stravagante a vedersi!

Anche lo scorso anno, per gli stessi motivi, per affrontare il viaggio in Siria e Giordania aveva smontato tutte le parti areografate sostituendole con pezzi uguali, presi da una altra Shadow di colore nero.

Questa avventura è stata preparata con cura, perché ci sono parecchi aspetti burocratici da affrontare prima di poter partire: in febbraio siamo andati tutti insieme al B.I.T. (Borsa Internazionale del Turismo) di Milano per prendere contatti con i Tour Operator Iraniani; infatti è necessario un invito da parte di una agenzia turistica locale per poter avere il visto di ingresso dal Consolato Iraniano. Abbiamo conosciuto il gentilissimo Hassan Ossanlu, docente di architettura a Tehran e rappresentante della Arg-E-Jadid (un importante Tour Operator di Tehran), che ci ha procurato gli inviti e che ci ha dato preziose informazioni sul suo paese. Gli inviti vengono inviati al Consolato della Repubblica Islamica dell’Iran a Milano, dove, presentandoci con il numero dell’invito, ci hanno rilasciato i visti turistici (di questo si è occupato Tiziano), da utilizzare al massimo entro un mese. Noi donne abbiamo dovuto fare le foto tessera già con il “velo” islamico, che poi abbiamo dovuto indossare per tutto il viaggio. Inoltre, abbiamo dovuto fornirci del Carnet de Passage per le moto, che viene rilasciato dall’A.C.I. a fronte di una fideiussione bancaria sul valore della moto nuova e che viene richiesto da diversi paesi, tra cui l’Iran, per dimostrare che sei entrato e uscito dal paese con il tuo automezzo e non l’hai venduto là.

L’Iran è un paese molto grande, e abbiamo a disposizione 25 giorni di ferie: abbiamo stabilito di vedere i luoghi più famosi e preventivato di dover percorrere non meno di 11.000 chilometri.

Ma torniamo al grande giorno: la partenza. Io e Enzo ci incontriamo in autostrada con Tiziano, che viene da Como, e arriviamo al porto di Ancona, dove abbiamo appuntamento con Enrico e Sarah che arrivano dalla vicina Macerata. Dopo festeggiamenti e amenità varie, tutti euforici, ci imbarchiamo. La nave, la Superfast XII, traghetto superveloce, parte alle 13.30 da Ancona e arriva a Igoumenitza alle 05.30 del mattino seguente. Abbiamo prenotato le cuccette, per riposare meglio in vista di un viaggio faticoso come questo, ma in realtà nessuno riesce a chiudere occhio, tanta è la voglia di partire. Sbarchiamo quando è ancora buio, super emozionati per la tanto sognata avventura che sta cominciando.

Siamo a terra da pochi minuti quando arriva in porto la nave dell’ultimo componente del gruppo, Gianni, che viene dalla Sicilia e ha già percorso 700 chilometri per andare ad imbarcarsi a Bari. Il gruppo è completo!!! Immancabile foto tutti insieme con lo striscione appositamente preparato, e saltiamo in sella. L’avventura ha inizio!!

Attraversiamo la Grecia del nord, con brevi pause per bere qualcosa di fresco e per pranzare. Da quando è entrata in Europa la Grecia ha fatto passi da gigante. Sono in costruzione autostrade e superstrade che permettono e permetteranno di attraversarla tutta, anche le difficili zone montuose, velocemente e senza problemi. L’asfalto è un po’ liscio e scivoloso in certi punti, ma in generale è abbastanza buono.

Verso sera inizia a piovere; volevamo arrivare ad Alexandrupoli, che dista pochi chilometri dal confine turco, ma per evitare la pioggia ci fermiamo a dormire un po’ prima, a Xanthi, all’Hotel Natassa, un buon tre stelle; recupereremo domani. Abbiamo comunque percorso 634 chilometri.

Il giorno seguente, partenza di buon ora. Perdiamo un’oretta alla frontiera turca, e prendiamo la strada per Istanbul, costeggiando il mare. Dopo notevoli rallentamenti causati da lavori stradali, arriviamo a Istanbul, che attraversiamo velocemente. È una bellissima città, l’abbiamo visitata già varie volte: peccato non avere almeno un giorno da dedicarle; ci fermiamo solo a scattare qualche foto dal famoso ponte Ataturk sospeso sul Bosforo, poi imbocchiamo l’autostrada che ci porta, a sera, ad Ankara, dove ci fermiamo a pernottare. È buio, siamo stanchi e ci infiliamo nel primo hotel che incontriamo; siamo fortunati, il Parliament Hotel è un tre stelle, pulito e a buon mercato. I chilometri percorsi oggi sono 854. L’attraversamento della Turchia deve obbligatoriamente essere veloce, per poter dedicare la maggior parte dei giorni a nostra disposizione all’Iran. L’indomani mattina si riparte, sempre direzione est. Dopo Ankara inizia il Kurdistan, quella parte della Turchia abitata da popolazione di etnia curda, che per anni ha avuto problemi col governo turco cercando di rivendicare la propria autonomia. Improvvisamente si fa un salto indietro di 50 anni; percorriamo strade dissestate e tanti chilometri di sterrato, vediamo carri agricoli tirati dai buoi e grano ancora  falciato a mano. I contadini abitano case fatiscenti costruite con fango e paglia impastati insieme e come combustibile in inverno bruciano lo sterco animale che durante l’estate raccolgono e compongono in mattonelle scure, che vengono allineate a fianco delle abitazioni e lungo i sentieri polverosi. I paesaggi sono montani, verdissimi, boschi e pinete si susseguono, fiumi e ruscelli intersecano le strade sulle quali corrono le nostre moto. Il clima è piacevolmente fresco, e non riusciamo a resistere alla tentazione di fermarci spesso a scattare foto ai bellissimi panorami. La terza notte la trascorriamo a Erzincan, paesetto sperduto a pochi chilometri da Erzurum, che raggiungiamo piuttosto stanchi dopo un ultimo tratto di sterrati difficoltosi e resi pericolosi dal grande traffico di camion. I chilometri percorsi oggi sono stati 682. Ci sono solo due alberghetti nel paese; nel primo dove chiediamo ci rispondono che è tutto pieno, quindi attraversiamo la strada e chiediamo in quello di fronte. È l’Hotel Berlin, una stella, e l’aspetto della hall lascia spazio alle peggiori idee su come possono essere le camere; del resto non abbiamo scelta, o questo o nulla. Invece, le camere sono grandi e pulite; l’arredamento è essenziale e il bagno è molto spartano, questo è vero, ma la spesa è assolutamente modica; all’incirca 6 € a testa. Il mattino facciamo colazione nella piccolissima hall dell’albergo: ci hanno apparecchiato i tavolini con fogli di quotidiano come tovaglie. Fantastico!!

Il giorno seguente si prosegue ancora in direzione est, sempre tra bellissime montagne, lungo strade sconnesse e semideserte, fino a che, nel pomeriggio, arriviamo in vista del maestoso Monte Ararat (5370 mt di altezza la cima più alta, 3895 la più piccola), che si erge sui confini di Turchia e Armenia. La sua cima perennemente innevata è circondata di nuvole: su questa montagna si dice sia nascosta la biblica Arca di Noè, peraltro cercata invano da varie spedizioni archeologiche.

Siamo a Doğubayazit, piccolo paese e ultimo avamposto turco prima della frontiera iraniana. Andiamo a visitare, con la luce rosata del tramonto, il bellissimo Ishak Paşa Sarai, il palazzo costruito tra il 1685 e il 1784 da Colak Abdi Paşa  e dal figlio Ishak: il suo stile si ispira all’architettura ottomana, armena, selgiuchide, georgiana e persiana, e si trova in cima ad una collina dalla quale si ha una veduta completa di Doğubayazit e della pianura circostante. Quest’ultima tappa in Turchia è stata di 477 chilometri: pernottiamo all’Hotel Nuh, dove io e Enzo eravamo stati due anni fa, durante i nostro primo viaggio in Kurdistan. La mattina seguente, di buon ora, arriviamo alla frontiera iraniana, che dista circa 20 chilometri. Riusciamo a sbrigare le formalità della frontiera turca con relativa rapidità (un’ora), e quando ci viene aperto il cancello della frontiera iraniana, finalmente possiamo mettere piede in territorio persiano. A questo proposito, vorrei spiegare che un tempo l’Iran veniva chiamato Persia; un nome derivato, come la lingua farsi, dal nome della provincia di Fãrs dove si erano stabilite le tribù ariane. Nel 1934, Rezã Shãh cambiò il nome della Persia in Iran, nome derivato direttamente da ariano, che significa “di nobili origini”, nel corso del suo intervento di modernizzazione del paese. Tuttavia, dal momento che il nome Persia era strettamente legato all’arte e alla cultura, ancora oggi si parla di “tappeti persiani” e “architettura persiana”.

Prima di passare la cancellata, io e Sarah indossiamo i camicioni appositamente preparati e i fastidiosissimi foulards. Avevamo previsto le lungaggini di tutte le frontiere mediorientali, invece in un’oretta ce la caviamo, e possiamo ripartire alla volta della nostra prima tappa in Iran, la città di Tabriz.

I telefoni cellulari italiani qui in Iran non funzionano; ne dovremo fare a meno per tutto il viaggio, e inoltre i telefoni fissi iraniani non funzionano certamente alla perfezione, spesso non si riesce a prendere la linea con l’Italia. In questo senso ci sentiamo un po’ in isolamento: oltre ai cellulari, anche le carte di credito e i bancomat sono inutilizzabili in questo paese, bisogna arrangiarsi solo con il denaro contante che ci siamo portati dall’Italia.

Contrariamente a quanto ci aspettavamo, le strade in Iran sono in ottime condizioni, l’asfalto è buono, la carreggiata larga, spesso i due sensi di marcia sono separati da guardrail o da una larga striscia di terra, per evitare chi gli spericolati camionisti si esibiscano in acrobatici sorpassi al limite del ragionevole. Ci capiterà diverse volte di doverci buttare velocemente, con le moto, fuori dal ciglio della strada, perché i camion in sorpasso non cedono strada a nessuno, anche se vedono arrivare un automezzo in senso opposto.

Il panorama del territorio iraniano è affascinante: le verdi pianure del Kurdistan si trasformano in deserto roccioso, man mano che le moto corrono verso sud. I colori cambiano: dalla gamma dei verdi della Turchia est si passa ad una incredibilmente vasta iride di bruno, ocra, rosso, cremisi, arancio, giallo, oro, viola, blu. Bellissime e aride montagne di rocce multicolori si susseguono alla nostra destra, mentre dalla parte sinistra della strada si apre già il deserto. La strada è poco frequentata, solo qualche camion freccia ogni tanto a velocità folle. Il clima, da piacevole e fresco della Turchia, diviene ben presto molto caldo. Per il nostro primo pranzo in Iran, ci fermiamo in una taverna per camionisti, l’unica trovata dopo tanti chilometri nel nulla.

Direi che non c’è niente che possa descrivere queste taverne agli occhi di chi non le ha viste: locali fatiscenti, tavolacci di ferro incrostati di sporcizia, servizi igienici in condizioni a dir poco spaventose: i piatti dopo l’uso vengono a mala pena immersi in una bacinella prima di essere riutilizzati. Del resto non abbiamo scelta: l’Iran è un paese grandissimo, tra una città e l’altra ci sono centinaia di chilometri senza null’altro in mezzo tranne deserto. Trovare una locanda è già un fatto raro (eravamo già moralmente preparati a saltare i pasti, avevamo sempre con noi pacchi di biscotti nelle borse delle moto), quindi quando la si trova, e si ha fame, non si guarda tanto per il sottile. E poi anche questo fa parte del folklore locale. Il cibo che servono questi locali è di buon sapore e ben cucinato, a dire il vero, ma è carente dal punto di vista della varietà; per tutto il viaggio mangeremo solamente riso in bianco, spiedini di pollo e/o spiedini d’agnello (kabãb). Non si trova niente altro in queste semplici locande, per disporre di una scelta leggermente più vasta bisogna andare in un vero ristorante, in una grande città.

Nel pomeriggio arriviamo a Tabriz, dopo aver percorso 318 chilometri.

L’albergo che ci ha consigliato il nostro amico Hassan, l’Hotel Darya è un 3 stelle, ma è piuttosto scadente; in Europa a fatica raggiungerebbe 1 stella, però ha un parcheggio chiuso per le moto. Dopo averle sistemate, chiamiamo un taxi e andiamo in giro; Tabriz è una tipica città mediorientale, caotica, rumorosa, inquinata. Un tempo era un’incantevole oasi, e per un breve periodo è stata anche capitale della Persia. È interessante osservare le persone per strada: l’80% delle donne sono velate nei loro “chador” tutti neri, mentre il rimanente 20%, più moderno, veste pantaloni (anche jeans), un lungo camicione sopra di essi, e sulla testa un leggero foulard o una sciarpa di seta. Gli uomini vestono all’europea, tranne i religiosi, i “mullah”, che sono abbigliati nelle loro tipiche vesti lunghe, marroni, e sulla testa portano una specie di turbante nero. Per spostarsi in città, molti iraniani usano motorini di piccole cilindrate, 125 e, al massimo, 250. Ci hanno spiegato che le moto di cilindrate più grosse, come le nostre, sono vietate agli iraniani, perché negli anni addietro, durante i moti di rivolta contro il governo, venivano usate per fare attentati.

Quindi si vedono famiglie intere come marito, moglie e 2 o 3 figli, tutti insieme appollaiati su questi piccoli motorini. Del resto, noi che siamo in 6 (più l’autista alla guida, 7) riusciamo a salire tutti quanti contemporaneamente su un unico taxi!! Quindi, perché stupirsi? Nessuno qui ti fa la multa per eccesso di occupanti su una vettura, evidentemente!

Sono le 19.00, e a causa dell’orario il bazar è già chiuso, poi ci dicono che è chiusa anche la Moschea Blu, perciò, non essendoci altro da visitare in così poco tempo, il taxi ci accompagna ad un parco pubblico sulle colline, dove al centro di un lago sorge il palazzo Băgh-è Golestăn, che ospita un ristorante. Qui più tardi ceniamo, a base riso e kabãb, e assaggiamo anche il dũgh, bevanda a base di yogurt , menta e acqua frizzante. In Iran è diffusissima l’usanza di bere tè, a tutte le ore del giorno e dopo i pasti principali.

In questo paese vengono pochissimi turisti dopo l’11 settembre 2001; comprensibilmente, dopo quella data c’è un generale timore verso i paesi di religione musulmana. Inoltre la recente guerra in Iraq, che comunque è proprio confinante con l’Iran, non ha certo invogliato il turismo; in realtà, l’Iran è un paese molto tranquillo, che si è tenuto al di fuori dai recenti avvenimenti. Comunque non si è mai sentito parlare, nemmeno in passato, di attentati o aggressioni a stranieri, ma nonostante ciò tanta gente lo considera a torto un paese pericoloso. In verità, gli iraniani sono straordinariamente gentili ed ospitali. Nel corso del viaggio ci capiterà continuamente di venire fermati per strada da persone (anche molte donne, nonostante siano coperte dai loro “chador”) che ci chiedono da dove veniamo. Quando gli rispondiamo “Italia” esprimono commenti soddisfatti e ammirati. E quanti inviti a pranzo e a cena abbiamo ricevuto, da persone appena conosciute che ci avvicinavano solo per la curiosità di parlare con degli stranieri: tutti vogliono sapere come si vive in Europa, cosa ne pensano gli europei dell’Iran, cosa abbiamo visto in Iran e cosa ci è piaciuto di più, e anche di che religione siamo!  Molti, inoltre, si sfogano con noi lamentandosi pesantemente del loro governo dittatoriale e opprimente; ma comunque mai, durante il nostro viaggio in Iran, ci siamo trovati in difficoltà o sentiti a disagio con gli iraniani: anzi, ci siamo sentiti quasi “a casa”.

L’indomani nuova meta, Tehran, che raggiungiamo faticosamente, a causa del traffico di camion spericolati e del caldo soffocante (raggiungiamo già i 45 gradi).  Tehran dista da Tabriz 641 chilometri.

L’hotel di Tehran, il Mashad, è sempre tre stelle, ma è lussuoso come un hotel di categoria superiore: la hall è decorata da belle specchiere, divani, tappeti e stucchi alle pareti; sui soffitti ci sono bassorilievi in stucco con figure mitologiche: le figure femminili, nonostante siano vestite, sono state comunque “pudicamente” ricoperte con fogli di carta bianca, per nasconderne le fattezze troppo “audaci” (!!!)

A Tehran ci fermiamo un giorno intero; è venerdì, giorno festivo per i musulmani, quindi i negozi, i locali e il bazar sono chiusi. Peccato, perché avevamo proprio voglia di fare una visitina ai negozi variopinti del bazar, e magari fare già i primi acquisti.

Da visitare c’è, per fortuna, il bellissimo Museo Archeologico, che ospita reperti importantissimi provenienti da Persepoli e da altre zone archeologiche dell’Iran. Per me, che sono appassionata di archeologia, è una grande emozione trovarmi finalmente al cospetto di Dario I° il Grande, seduto in trono e attorniato dalla sua corte. Le figure di questo bassorilievo splendido, in basalto nero, sono in grandezza naturale, e sembrano appena uscite dallo scalpello dell’artista e dalle pagine di Erodoto. Un’alta colonna, anch’essa in basalto, sormontata da un capitello a forma di due teste di toro, fa bella mostra di sé al centro della sala principale, e una scalinata maestosa, sempre in basalto, è decorata dalle immagini dei famosi “immortali”, i 10.000 soldati scelti che formavano la guardia del corpo del Re dei Re. Vedremo le loro immagini dovunque, a Persepoli. C’è una statua di cane seduto, talmente perfetta da sembrare vivente; e c’è una mummia umana, chiamata “l’uomo di Zanjãn”, dalla città dove è stata trovata. Si tratta probabilmente di un minatore che visse nel III° o IV° secolo, il cui corpo, i capelli bianchi, la barba, gli stivali di cuoio, si sono conservati quasi intatti grazie al sale in cui venne sepolto.

Con lo stesso biglietto del Museo Archeologico, possiamo entrare anche all’adiacente Museo Islamico, che custodisce preziose copie del Corano decorate a mano, tappeti e stoffe antiche splendidamente ricamati, porte lignee dai bellissimi intarsi e oggetti artistici.

Usciti dai due musei è ora di pranzo: la nostra guida Lonely Planet ci consiglia un locale tipico proprio di fronte, in un parco pubblico. Entriamo e subito ci troviamo immersi in una atmosfera magica: tutto intorno alle pareti si trovano dei bassi soppalchi di legno ricoperti di tappeti, cuscini e narghilè, dove la gente mangia e fuma, seduta a gambe incrociate (una posizione scomodissima ma tipica, da queste parti). Alle pareti, fotografie d’epoca della Tehran di 50 anni fa, oggetti d’antiquariato di vario genere e, infine, le immancabili immagini degli “emãm”, Khomeini (pace all’anima sua) e altri due, attualmente al governo. Tutti gli hotel e i negozi, in generale i luoghi pubblici, ne sono corredati.

Ci sediamo anche noi e ordiniamo un piatto tipico del locale. Si tratta di costolette d’agnello cotte in umido con legumi e patate; il tutto viene posto poi in una piccola bacinella di terracotta dove con un pestello viene praticamente macinato e ridotto a purè. Viene poi mangiato accompagnato dal pane iraniano, una sfoglia sottile simile al pane arabo. In effetti è molto buono, ed è l’unico piatto diverso dal riso e kabãb che mangiamo durante il nostro soggiorno in Iran. Il pomeriggio lo passiamo bighellonando per la città semi deserta; intanto cerchiamo un meccanico di motorini, che speriamo possa riparare una piccola perdita al radiatore della Honda Shadow del nostro amico Enrico. Troviamo il meccanico: è un ragazzo di una ventina d’anni, che gestisce una piccolissima officina con i genitori. Quando gli diciamo che siamo italiani ci fa mille festeggiamenti, ci invita a casa sua a bere tè con genitori, fratello e sorella, tutti insieme seduti in terra sui tappeti (non ci sono comunque sedie né divani), e per noi aprono un bel cocomero fresco. Sono veramente onorati di avere ospiti stranieri e, addirittura, italiani (tanto entusiasmo è dovuto, poi ci rendiamo conto, anche al fatto che seguono molto il calcio e le squadre italiane), e ci vorrebbero trattenere anche a cena. Purtroppo non possiamo accettare perché siamo già invitati dall’amico Hassan, e dispiaciuti dobbiamo declinare. Il meccanico, insieme ad Enrico e ad un altro ragazzo (in tre su uno dei loro motorini!) vanno al nostro albergo a recuperare la Shadow e la portano all’officina, assicurando che sarà pronta per l’indomani mattina alle 10 in punto. Enrico è abbastanza preoccupato: chissà se il meccanico iraniano saprà mettere le mani sulla sua moto!!!

La sera, cena con Hassan al ristorante tipico Ali Ghãpŭ: è pieno di gente allegra, tante donne bellissime e vestite in modo vagamente moderno, poi musica iraniana dal vivo. Mangiamo molto bene: ci portano un’ottima zuppa di legumi, e il solito riso bianco stavolta è variato con fave, prezzemolo, zafferano e scorze d’arancia, poi seguono kabãb di pollo e agnello, ottimi, molte verdure cotte e crude, melone e cocomero. Gli alcolici sono ufficialmente vietati, anche se poi ci spiegano che esiste un fiorente mercato nero di vini e liquori.

La mattina seguente, mentre Enrico e Sarah vanno a ritirare la Shadow, io e Enzo torniamo al Museo Archeologico per acquistare i primi souvenir: una statuetta che raffigura uno degli “immortali”, alta circa 50 cm., e una riproduzione di una delle teste di toro che ornano la colonna di basalto nel museo, alta circa 30 cm. Prendiamo una statuetta di immortale anche per Enrico, e tutte e tre vengono imballate in apposite cassette di legno: le nostre verranno caricate sulla povera Africa, che da questo momento in poi verrà trasformata in un “cammello” da carico per i tantissimi souvenir che come ogni anno porteremo a casa, mentre quella di Enrico (sulla Shadow ha poco spazio) finirà legata sulla sella del Varadero di Tiziano, meritatamente al posto del passeggero. Non tutti i motociclisti possono vantare l’onore di aver avuto per passeggero un “immortale”!

Torniamo in albergo, arriva Enrico con la moto perfettamente riparata. Il meccanico non ha voluto assolutamente essere pagato per il suo lavoro, talmente era felice di aver fatto un favore a degli italiani; così Enrico gli ha regalato un ciondolino d’oro che portava al collo e che era un regalo di Sarah. Partiamo verso mezzogiorno, con un caldo soffocante, in direzione Kãshãn. Questa sarà in assoluto la tappa più breve del viaggio, 271 chilometri, ma forse la più sofferta, a causa del grande caldo. Tra l’altro, per strada, proprio in un tratto completamente deserto e col sole a picco sulle teste, ci dobbiamo fermare perché pare che la Shadow di Enrico abbia ancora problemi col radiatore. Il termometro dell’Africa segna 45 gradi; Enrico e Gianni si mettono ad armeggiare, nonostante l’asfalto sia talmente caldo da non permettere di stare chinati a terra per lavorare al guasto; addirittura le suole degli stivaletti da moto di Enrico si staccano per il calore! Dopo quasi un’ora di penoso lavoro possiamo ripartire, la Shadow è riparata.

Finalmente arriviamo a Kãshãn, ci sistemiamo in albergo, l’Amir Kabir Hotel, tre stelle scadente: parcheggiamo le moto sotto al portichetto d’ingresso dell’Hotel e, col solito taxi sul quale saliamo in 6, più l’autista, andiamo a visitare la città. Kãshãn è una tipica città del deserto, il cui centro è costruito con case di argilla e paglia. C’è una bellissima moschea, la Madrasé-yé e Masjed-è Agha Bozorg, che ospita anche una scuola coranica, ed ha un insolito cortile costruito al di sotto del piano stradale. Ha anche una magnifica porta lignea decorata da borchie, tante quanti sono i versetti del Corano, un delizioso “mihrab” e una cupola imponente affiancata da due possenti minareti. Visitiamo poi la tomba del venerato scià Abbãs I°, decorata da una volta interamente ricoperta di specchietti che riflettono uno intensa luce verde (il colore dell’Islam), poi il lussuoso palazzo chiamato Khãn-è Tabatabei: era di proprietà di un ricco mercante di tappeti, ed è famoso per i complessi motivi in rilievo scolpiti nella pietra, per gli splendidi specchi e le bellissime vetrate multicolori. Davanti al palazzo si apre un elegante giardino con fontana, ma il tutto è nascosto dalla vista, stando sulla strada, da un anonimo muro di argilla e paglia; non ci si aspetterebbe mai, oltrepassato il muro, di vedere un simile spettacolo.

Velocemente facciamo anche una visita al bazar, dai coloratissimi negozi di stoffe, dalle luccicanti oreficerie, dai profumati negozi di spezie.

Mentre nelle grandi città si trova sempre qualcuno che parla un po’ di inglese, nei piccoli centri come questo è piuttosto difficile comunicare: pochi parlano inglese, e gli iraniani cercano di farsi capire nella loro lingua lanciandosi in lunghi monologhi, nonostante vedano le nostre facce attonite!

L’indomani si parte per la nuova meta, Yazd, la città di Zarathushtra. Proseguiamo quindi ancora verso sud, attraversando il deserto roccioso. Il caldo è come sempre soffocante; facciamo una deviazione verso la montagna, al paese di Abyaneh. La strada è molto bella, tra le montagne aride si apre un’inaspettata valle verde e alberata percorsa da un fiume, nei cui prati pascolano greggi di capre e pecore. Salendo verso la montagna la temperatura, per fortuna, si fa più fresca. Arrivati ad Abyaneh, ci intrufoliamo tra le stradine del paese, in mezzo alle case caratteristiche di argilla.

Dietro una casa infatti, un uomo è intento a mescolare l’argilla, che dà il caratteristico colore rosso a tutto il paese di Abyaneh, con la paglia e l’acqua. Questo impasto, una volta seccato dal sole cocente, diviene resistente come cemento. Dalle porte delle case, qualche donna velata si affaccia per vendere prodotti dell’artigianato locale: bellissime sciarpe di seta, monili d’argento, frutta secca, vestiti tipici. Dopo aver naturalmente acquistato souvenir, stiamo per ripartire quando una ragazzina si avvicina a noi e alle nostre moto: parla inglese, e ci sta facendo capire di seguirla. Incuriositi, ci incamminiamo con lei; dopo pochi metri c’è un giardino pubblico ombreggiato da grandi alberi, con un ruscelletto d’acqua sorgiva che riempie alcune vasche. Diverse famiglie di iraniani se ne stanno qui a prendere il fresco, seduti sui loro immancabili tappeti, e consumano spuntini a base di frutta e verdura. Una di queste famiglie è per l’appunto quella della ragazzina: ci fanno segno di sedere con loro sul tappeto, ci offrono cetrioli e un cocomero che tenevano in fresco nell’acqua: addirittura offrono a noi tutto ciò che si erano portati come colazione. Come sempre ci viene chiesto da dove veniamo. La ragazzina è l’unica che parla un po’ di inglese nella famiglia composta da padre, madre e due sorelle, e ci racconta che sono in vacanza, che vivono a Tehran e che lei studia all’università. Ci scambiamo gli indirizzi con la promessa, una volta rientrati, di inviare le foto fatte assieme; queste persone sono veramente fantastiche. Dobbiamo ripartire, altrimenti non raggiungeremo Yazd questa sera. Sostiamo per il pranzo alla prima locanda per camionisti che incontriamo, e si mangia riso bianco e kabãb . Arriviamo a Yazd all’imbrunire, dopo una tappa di 456 chilometri. L’albergo che ci ha consigliato Hassan è l’Hotel Parsian: è abbastanza bello, considerata la media: c’è anche una piscina, vuota, il cui utilizzo un tempo era riservato, comunque, solo dagli uomini. C’è anche un giardino pieno di alberi, con al centro un chiosco che la sera cucina pizze (veri “mattoni” guarniti con carne, peperoni, pomodori, formaggio, ketchup e maionese) e serve tè, il tutto sui soliti soppalchi di legno coperti di tappeti. Nell’atrio dell’albergo incontriamo due italiani che vengono da Carpi, vicino a Modena (città nota per la lavorazione della ceramica): infatti sono lì per lavoro, a vendere piastrelle (Yazd, in Iran, è la più grossa produttrice di ceramiche). Quando ci vedono arrivare con le moto, stanchi e impolverati come se fossimo appena usciti dalla Parigi-Dakar, non credono ai loro occhi.

A cena andiamo in un ristorante che ci indicano in albergo. È molto caratteristico, ricavato da un vecchio bagno turco: è sotterraneo, vi sono ancora le piscine piene d’acqua, le pareti sono ricoperte di bellissime piastrelle multicolori, e si mangia su tavolinetti bassi, posti sugli immancabili tappeti. Il menù sembra vario, ma quando cerchiamo di ordinare il cameriere non parla inglese, e comunque capiamo che molti dei piatti indicati non ci sono. Alla fine, si mangiano riso bianco e kabãb di pollo e agnello. Pazienza!

Il giorno dopo, Enrico, Sarah, Tiziano e Gianni decidono di partire nel primo pomeriggio, farcendo una galoppata di un migliaio di chilometri, per andare a vedere Bam. A Bam c’era una bellissima cittadella, tutta realizzata in mattoni di argilla e paglia; uno dei siti più interessanti di tutto l’Iran. Purtroppo, questa primavera, una forte scossa di terremoto l’ha completamente distrutta, causando anche, purtroppo, parecchie vittime tra la popolazione. Io e Enzo invece decidiamo di rimanere a visitare Yazd, indicata dall’Unesco come una delle città più antiche del mondo, che altrimenti non avremmo tempo di vedere. Il mattino, quindi, accompagnati da Amir, un architetto amico di Hassan, che ha studiato con lui in Italia e che pertanto parla molto bene l’italiano, partiamo per la visita della città.

Iniziamo con la città vecchia, un vero labirinto che ha il colore argilla dei mattoni seccati al sole, con le caratteristiche “torri del vento” (o “bãdgïr”), una sorta di giganteschi comignoli di forma squadrata, alla cui sommità si aprono una serie di fenditure verticali. Servono per convogliare il vento all’interno delle abitazioni; in effetti, entrati in una delle tipiche case, ci siamo messi sotto una delle torri: la temperatura era nettamente più fresca rispetto alle altre stanze; praticamente sono una specie di impianto di condizionamento naturale. Tra le strettissime viuzze della città vecchia, improvvisamente si apre ai nostri occhi una mirabile e imponente struttura: è la facciata della bellissima Masjed-è Jãmé, costruita nel XIV secolo sul sito di un antico tempio del fuoco zoroastriano. È splendidamente decorata con piastrelle in ceramica, e possiede due altissimi minareti, i più alti di tutto l’Iran. Il cortile interno è pavimentato con lastre di onice e alabastro, mentre l’area riservata alla preghiera è ricoperta di bei tappeti. La nostra visita prosegue con la Prigione di Alessandro, che secondo la tradizione è stata costruita da Alessandro Magno, e dopo di essa il monumento chiamato Amir Chakhmãgh, la cui favolosa facciata a tre piani costituisce uno dei luoghi più riconoscibili ed insoliti di tutto l’Iran.

Verso le 11.00 i nostri amici partono; ci ritroveremo il giorno seguente a Shiraz.

Io e Enzo proseguiamo le visite col palazzo Bãgh-è Doulat Abãd, che si trova all’interno di una fortificazione in mattoni d’argilla. Era la residenza di un governatore di Yazd, e consiste in un padiglione situato in mezzo a dei bei giardini e vasche d’acqua. Possiede la torre del vento più alta della città, di forma esagonale, e l’interno è decorato da bellissime vetrate multicolori. Nel pomeriggio, andiamo poi a vedere uno dei luoghi che a me interessavano maggiormente: il suggestivo tempio del fuoco eterno di Ahura Mazda e del suo profeta Zarathushtra.

Ahura Mazda era il dio dell’antica Persia: la prima testimonianza di questo antichissimo culto monoteista risale al tempo del re Hammurabi di Babilonia; il culto si basava sull’eterna lotta tra il bene e il male, che erano incarnati da Vohu Mano (spirito benefico) e Ahem Mano (spirito malefico). I due spiriti coesistevano entrambi nell’essere supremo, Ahura Mazda, e in tutte le forme viventi. Ancora oggi esistono piccoli gruppi di seguaci di questa religione, comunemente nota come Zoroastrismo, dal nome del profeta Zarathushtra, che i greci chiamavano Zoroastro. All’interno del tempio del fuoco è custodito un braciere, nel  quale arde ininterrottamente, dal 470 d.c., il fuoco sacro di Ahura Mazda. Il fuoco venne tenuto nascosto, ma sempre alimentato, durante l’occupazione degli arabi. Solo 70 anni fa l’antichissimo culto e il suo fuoco eterno furono ufficializzati, e qui a Yazd venne costruito questo bel tempio, ornato da colonne sulla facciata, alla cui sommità si può ammirare un bassorilievo in smalto raffigurante il dio Ahura Mazda, dal busto umano e dalle grandi ali piumate, dispiegate e racchiuse da un anello d’oro. Il braciere del fuoco eterno, all’interno del tempio, è in una sala buia, visibile dietro un grosso cristallo; nella sala c’è un quadro che ritrae Zarathushtra e altri che contengono citazioni dai suoi scritti.  Da 1600 anni, un sacerdote, col volto ricoperto da una maschera, ogni giorno porta legna per mantenere vivo il fuoco eterno.

Dopo questa suggestiva visita, proseguiamo con la misteriosa religione di Zarathushtra visitando le “Torri del Silenzio”. Si tratta di due grossi torrioni fortificati, che si ergono sulle colline nel deserto appena fuori dalla città; al loro interno, dall’antichità fino ad arrivare a 40 anni fa, i seguaci di Ahura Mazda deponevano i loro morti, che venivano lasciati in pasto ai corvi e agli avvoltoi. Secondo la loro religione, infatti, il corpo umano in decomposizione non poteva contaminare il terreno venendovi sepolto, così come non poteva contaminare l’aria col fumo, se veniva cremato. I morti erano quindi portati su queste torri e sistemati in posizione seduta. Un sacerdote era incaricato tutti i giorni di controllare se gli avvoltoi me divoravano le carni, volando poi in cielo e portando l’anima del defunto, in questo modo, vicino al dio. Inoltre veniva osservato quale occhio del cadavere veniva mangiato per primo dagli avvoltoi: se era l’occhio destro, era segno che l’anima era pura e sarebbe andata in paradiso; se invece era l’occhio sinistro, significava che l’anima del defunto non era degna del paradiso ma degli inferi. Ai giorni nostri, gli Zoroastriani seppelliscono i morti sottoterra ma in casse di cemento, in modo che il terreno non ne venga contaminato. La comunità di moderni Zoroastriani più numerosa si trova proprio qui, a Yazd. Altre comunità si trovano in India, e sono chiamate “parsi”.

Ritorniamo in città e facciamo una capatina al bazar, dove compro un ciondolo d’oro che raffigura Ahura Mazda. Speriamo che mi porti fortuna fino alla fine di questo sorprendente viaggio.

Il giorno seguente partiamo per Shiraz. Nel tragitto, 600 chilometri da Yazd, su indicazione di Amir, ci fermiamo al paesino di Abarkuh per vedere un cipresso che una leggenda vuole antico migliaia di anni. In effetti il tronco di quest’albero è gigantesco, tutto pieno di rami intricati. Gli hanno costruito intorno un bel giardino, dove se ne stanno all’ombra parecchi ragazzi e ragazze, che naturalmente ci guardano con grande stupore; in questi piccoli paesi sperduti, nemmeno citati dalla guida Lonely Planet, l’arrivo di uno straniero è un fatto veramente clamoroso. Sulla strada troviamo un antico caravanserraglio abbandonato, molto suggestivo, dove facciamo parecchie foto. Proseguiamo ancora e ci fermiamo ad una delle mete che più mi spingevano a fare questo viaggio: la tomba di Ciro il Grande, a Pasargade. Arrivati là però, grande delusione: la tomba, semplice ed essenziale nella sua struttura architettonica, posizionata in una grande pianura verdeggiante, è completamente ricoperta di impalcature per il restauro, tanto che non vale nemmeno la pena fotografarla!

Piuttosto contrariati, proseguiamo nella visita del sito archeologico, dove si possono vedere scarsi resti della città, costruita da Ciro, che nell’antichità fu una delle tre capitali dell’impero. Si possono veder alcune colonne appartenenti a tre palazzi Achemenidi: il Palazzo dell’Entrata, il Palazzo dell’Udienza e la Residenza privata di Ciro. Quest’ultimo è stato così chiamato dopo il ritrovamento al suo interno di una iscrizione in caratteri cuneiformi, che recita: “Io sono Ciro, il Re Achemenide.” Vi sono, poco più avanti, anche i resti di una tomba, battezzata dalla fantasia popolare “Prigione di Salomone”.  Queste rovine, anche se modeste, hanno un loro fascino solitario. All’ingresso, l’impiegato della biglietteria, sbigottito alla vista di stranieri in questo luogo semi abbandonato, e per di più in moto, ci fa firmare il registro dei visitatori, raccomandandosi di indicare bene la nostra nazionalità. Quando legge “Italy” la sua espressione si fa estremamente soddisfatta.

Verso sera arriviamo a Shiraz. Da qualche giorno l’Africa sta dando qualche problema: quando il motore è molto caldo, tende a spegnersi o a procedere a singhiozzo. Poco prima di arrivare a Shiraz si spegne, e dobbiamo aspettare una decina di minuti che il motore si raffreddi almeno un po’ (con quelle temperature, sempre intorno ai 45 gradi, capirai …..); poi riparte, ma arrivati in città si spegne nuovamente e non parte più. Enzo ipotizza che il problema possano essere le candele, non adatte, o la pompa della benzina a depressione, che abbiamo montato qualche giorno prima della partenza, in sostituzione della pompa elettrica, che storicamente crea problemi all’Africa Twin. La nostra moto ha avuto il buonsenso di spegnersi a pochi metri dall’albergo; la spingiamo fino là, e speriamo che una volta raffreddatosi il motore riparta. In effetti così  sarà, il mattino seguente.

Saliamo in camera per il meritato riposo, sono circa le 18.00. Alle 21.30 arrivano Enrico, Sarah, Gianni e Tiziano, provenienti da Bam; avevamo appuntamento un questo albergo.

Tutti insieme andiamo a cena in un ristorante caratteristico.

Tiziano ci parla della loro esperienza a Bam: “…è stata una giornata piena, sicuramente la tappa più massacrante di tutto il percorso; di comune accordo ci siamo svegliati alle 6 del mattino, caricato le moto e alle 7,15 eravamo in strada alla volta di Bam.

Prima tappa il distributore per poter affrontare i 200 km. che separano Kerman da Bam, poi tutta un tirata fino a destinazione; dopo circa 150 km. cominciamo a vedere i primi segni del terremoto e capiamo che siamo ormai prossimi alla meta.

Arrivati in città ci accorgiamo immediatamente di quanto sia stato devastante il sisma; ovunque vediamo segni di distruzione. Chiediamo ai passanti indicazioni per la cittadella, visto che come quasi sempre accade le indicazioni stradali sono scritte in farsi, e come al solito un motociclista volenteroso (con una delle loro moto fatiscenti) ci accompagna fino a destinazione.

Il primo impatto con la cittadella, o perlomeno quel che è rimasto, e tremendo, della stupenda costruzione interamente in argilla non rimane altro che un cumulo di macerie, sicuramente il 23 dicembre 2003 alle ore 1,56 (ora locale) rimarrà impresso in modo indelebile nella memoria di queste persone, perché oltre ad aver distrutto in pochi minuti 500 anni di storia, la scossa di terremoto di 6,7 gradi della scala Richter ha causato la morte di oltre ventottomila persone (anche se le vittime del sisma secondo le autorità locali sono state almeno cinquantamila). Bam era una piacevole cittadina antica, piena di eucalipti e di palme da datteri che indicano chiaramente che si trattava di un'oasi nel deserto.

Sebbene alcune delle strutture sopravvissute fino al terremoto siano state costruite prima del XII secolo, la maggior parte risaliva al periodo safavide (1502-1722).

La città fu abbandonata in seguito a un'invasione afghana nel 1722, poi nuovamente abbandonata dopo che invasori assetati di sangue provenienti da Shiraz la conquistarono. Fu poi usata come caserma dell'esercito fino ai primi anni trenta di questo secolo; in tempi odierni era completamente deserta.

Numerose scalinate ripide e strette portavano ai pinnacoli del muro esterno in argilla che quasi circondava l'intera città, mentre la cittadella interna dominava tutta Bam. Gli archeologi ritengono che lo straordinario eco che si udiva nella guarnigione militare sia stato una deliberata e antica forma di altoparlante.

Nonostante tutto siamo stati comunque contenti di esserci arrivati, anche se ci era stato sconsigliato da alcuni iraniani per il motivo che della splendida cittadella non rimaneva nulla; comunque, i resti danno un’idea della meraviglia di questo luogo, e inoltre era poi una questione d’orgoglio, visto che Bam era la meta più lontana del viaggio, rinunciare significava quasi una sconfitta.

Sarah ci descrive le sue impressioni:…”è una città praticamente distrutta, a vederla si prova una stretta al cuore; la gente non ha più niente, gli abitanti vivono nella massima povertà, e la cosa peggiore è che non hanno nemmeno la possibilità di migliorare la loro condizione. Quello che Bam era prima del disastro è inimmaginabile; difficilmente potrà ritornare ad essere ciò che era, perché ricostruire il suo passato glorioso significa anni di duro lavoro e di ripristino territoriale. Nonostante la miseria, le tendopoli con le donne abbigliate in chador intente a cucinare per terra, i detriti e la sporcizia, i bambini ti osservano sì con la tristezza negli occhi, ma al tempo stesso con gioia, forse perché pensano di non essere stati dimenticati. Nel momento in cui si sale sulle macerie della cittadella, si è costretti a riflettere sul destino di questa città; dire che Bam è una città distrutta è sbagliato; è semplicemente sommersa, come addormentata in un incubo”…

Tiziano, Gianni, Enrico e Sarah in questa giornata hanno percorso 960 chilometri per arrivare a Shiraz, venendo da Kerman dopo aver visitato Bam, mentre i chilometri percorsi da Yazd a Kerman sono stati 378.

Il giorno seguente andiamo tutti insieme a visitare il sito archeologico più importante dell’Iran: Persepoli, la capitale estiva del grande impero persiano ai tempi della dinastia Achemenide. La capitale amministrativa, Susa, si trova (oggi rimangono scarsissimi resti) in una depressione vicino al Golfo Persico, dove in estate le temperature raggiungono facilmente i 55 gradi. Peertanto il Re dei Re trasferiva tutta la corte a Persepoli, per scampare all’infernale calura.

La costruzione di Persepoli, che dista da Shiraz circa 70 chilometri, venne iniziata da Dario I° il Grande, e completata dai re successivi; per quanto grandiose possano apparirci le sue rovine, sono solo un’ombra di ciò che doveva essere nell’antichità, all’apogeo dell’impero, prima che Alessandro Magno la facesse radere al suolo. Nei secoli successivi, la bellissima Persepoli rimase dimenticata sotto una coltre di polvere e sabbia, fino agli anni trenta, quando diverse missioni archeologiche riportarono alla luce gli antichi splendori. Vi si accede, come nell’antichità, da un’imponente scalinata: i palazzi, infatti, sono costruiti su una sorta di terrazzamento naturale, fortificato da larghe mura. Per prima si incontra la stupefacente e colossale Porta di Serse, sorvegliata da 4 giganteschi leoni alati dalla testa umana; oltre la porta, una fila di colonne, sormontate ognuna da due splendide teste di grifone, conduce alla Corte dell’Apadana e al Palazzo stesso dell’Apadana, dove il re riceveva le delegazioni più importanti. Ne rimangono alcune colonne colossali, ma soprattutto, un vero gioiello dell’arte antica: i bassorilievi che raffigurano gli “immortali”, i diecimila soldati della guardia del corpo del re, e altri che raffigurano i popoli sottomessi, che portano doni e animali esotici dalle loro terre. Splendide le immagini, ricorrenti, di leoni che attaccano gazzelle.

La nostra visita prosegue con il Palazzo delle Cento Colonne, dove venivano ricevuti gli ambasciatori delle nazioni meno importanti, e dove venivano anche pagati i tributi: era il palazzo più grandioso di Persepoli, e deve il suo nome alla enorme sala colonnata di cui purtroppo rimangono solo i capitelli. C’è un altro palazzo importantissimo, il Palazzo Centrale, detto anche Sala delle Udienze: si trova nel cuore di Persepoli e permetteva al Re di ricevere i suoi dignitari in una zona protetta e nascosta alla vista. Qui venivano prese le decisioni più importanti; vi si può ammirare un bellissimo bassorilievo che raffigura Dario I°, il figlio Serse e la corte. Le immagini sono in grandezza naturale.

Dietro al Palazzo dell’Apadana sorgono le rovine dei palazzi personali dei grandi re, Dario I°, Serse I° e Artaserse III°. Sulle mura del palazzo di Serse sono ancora visibili i segni lasciati dal fuoco appiccato dai macedoni di Alessandro Magno, che si dice ordinasse l’incendio di Persepoli per vendicare il rogo dell’Acropoli di Atene ordinato da Serse durante la II^ Guerra Persiana. Nel fianco della montagna, seguendo un sentiero piuttosto ripido, si arriva alle due tombe rupestri di Artaserse II° e Artaserse III°, decorate da immagini di Ahura Mazda e di immortali. L’arrampicata è faticosa, soprattutto con i 47 gradi che scopriremo tra poco misurare nell’atmosfera, ma dall’alto delle terrazze delle tombe si ha una bellissima visione d’insieme di Persepoli.

Lasciato questo sito, ci fermiamo a vedere le tombe rupestri di Naghsh-é Rostam, che si trovano a un paio di chilometri di distanza: le quattro tombe sono state scavate nella montagna parecchio in alto rispetto al suolo, e si ritiene che siano quelle di Dario I°, Artaserse I°, Serse I° e Dario II°. Sono concepite come quelle di Persepoli, con la facciata a forma di croce decorata da immagini di Ahura Mazda: qui si apre la camera funeraria, dove furono deposte le ossa del re spolpate gli avvoltoi, secondo il rito Zoroastriano. Sotto le facciate delle tombe, ci sono otto bassorilievi, giganteschi, di epoca sasanide, raffiguranti cerimonie reali e scene di conquista. Di fronte alla rupe si trova una misteriosa torre affiorante dal terreno; gli archeologi ipotizzano che si possa trattare di un antico tempio del fuoco Zoroastriano.

Sono le 15.00 e, come ho detto poc’anzi, il caldo è torrido. Tornando verso Shiraz, l’Africa si spegne nuovamente; decidiamo di provare a cambiare le candele rimettendo le originali, incautamente sostituite dal meccanico. Comunque rimandiamo l’intervento a domani; adesso abbiamo appuntamento con un amico. Si tratta di Arpak, nipote di Soela, una signora iraniana che vive in Italia ed è proprietaria di un ristorante persiano vicino a Bologna, dove io e Enzo andiamo molto spesso. Arpak l’abbiamo conosciuto in Italia, dove ha lavorato per due anni, e si è offerto di farci da guida nella sua città. Shiraz, anche in passato, è stata una città tra le più importanti in Persia: dal 1750 al 1789 è stata anche capitale, ad opera dello scià Karïm Khãn. Per primo visitiamo il palazzo Bãg-è Naranjestan; costruito per ospitare saloni da ricevimento, fu poi adibito a residenza del governatore. Dentro al padiglione si trova un salone d’ingresso decorato da magnifici intarsi di specchi, mentre le stanze circostanti presentano una combinazione mozzafiato di piastrelle colorate, pannelli di legno, dipinti d’epoca su stucco e bellissime vetrate. Sulla facciata ci sono anche dei bassorilievi ispirati a quelli di Persepoli; il palazzo possiede un grande giardino pieno di fontane. Poi visitiamo le tombe di due famosi poeti: Hãfez e Sa’di. La prima, attorniata da splendidi giardini con grandi specchi d’acqua, è semplice e sobria: al centro c’è la pietra tombale in marmo, con incisi alcuni versi tratti dalle opere del poeta. Ci rendiamo conto che Hãfez è amatissimo dai persiani: fiumi di persone si fermano a visitare le tomba, toccano la pietra tombale e pronunciano una breve preghiera. La tomba di Sa’di, anch’essa visitatissima dagli iraniani, è come l’altra immersa nel verde di un bel giardino che possiede perfino una sorgente d’acqua. La sepoltura è in marmo, molto semplice, adorna solamente di un’iscrizione in farsi, ed è posta al centro di un colonnato ottagonale in pietra, sulle cui pareti interne sono scritti versi del poeta.

In ogni sito che visitiamo, le persone ci fermano incuriosite e ci fanno mille domande, poi come sempre ci invitano a bere il tè o a cenare con loro; ormai è divenuta un’abitudine. Dopo un breve passaggio a salutare la famiglia del nostro amico, torniamo in albergo.

Il giorno seguente non può mancare la visita al bazar; quello di Shiraz è molto bello, e vi si possono acquistare stoffe, tappeti, gioielli, ceramiche, oggetti in ferro battuto. Girando per la città in cerca di adesivi raffiguranti la bandiera dell’Iran, da applicare sulle moto, ci imbattiamo in un possente castello, chiamato Arg-è Karïm Khãnï, che fu utilizzato come prigione all’epoca dei Pahlavï; questa fortezza è molto ben conservata, con quattro torri circolari alte 14 metri. La torre del lato est presenta una pendenza inquietante; esperti provenienti da Pisa l’hanno studiata, per poi concludere l’impossibilità di correggerne l’inclinazione.

Si pranza in albergo, poi si parte per Esfahãn; è un tragitto di 481 chilometri, la temperatura esterna è di 48 gradi e dopo un po’ l’Africa si spegne nuovamente. A questo punto ci fermiamo con l’intento di cambiare le candele; fortunatamente troviamo una capanna di paglia lungo la strada, la parcheggiamo lì sotto ed eseguiamo l’operazione “a cuore aperto”; infatti, oltre alla sella e al serbatoio, occorre anche smontare tutto il carico di statuette e souvenir che sono state fissate sul bauletto posteriore con i ragni elastici, per poter estrarre dal bauletto stesso gli attrezzi necessari. Meno male che abbiamo trovato questo riparo occasionale, altrimenti rischiavamo tutti l’insolazione.

Dopo il cambio delle candele l’Africa non darà più problemi di spegnimento a caldo; ogni tanto, però, la pompa a depressione, col serbatoio pieno a metà e la strada in pendenza, fatica a pescare benzina. Appena a casa rimonteremo la pompa elettrica originale.

Arriviamo a Esfahãn alle 22.30. È giovedì sera e, visto che per i musulmani il venerdì è giorno festivo, per loro il giovedì sera è il corrispondente del sabato sera in Europa. Se consideriamo poi che Esfahãn è la città più bella e “turistica” (sono tutti comunque turisti locali) dell’Iran, cercare un albergo qui, di giovedì sera, è una impresa impossibile! A mezzanotte, stanchi, sporchi ed affamati, stiamo ancora peregrinando da un albergo all’altro: tutti pieni, dal quattro stelle alla pensione più infima. Però gli impiegati delle varie “receptions” sono a dire il vero gentilissimi, e si danno molto da fare per trovarci una sistemazione, telefonando ad altri alberghi. Finalmente troviamo posto al Piroozy: un po’ caro, chiede 65 $ per la camera doppia, ma accettiamo per forza, non abbiamo scelta. In realtà questo hotel si rivela un vero disastro. Nonostante vanti quattro stelle, è decadente e malandato, le camere sono squallide, con letti duri come tavolacci e lenzuola sporche, e il bagno vecchio e malfunzionante. Inoltre, il personale è lento in maniera snervante, non accettano pagamento in euro (unico caso) e il mattino seguente, quando ce ne andiamo, cercano di spillarci dollari (che oltre tutto non abbiamo) dicendo che non accettano il pagamento nemmeno nella loro moneta, i rial !!! Viste le nostre espressioni inferocite, cambiano subito idea. Abbiamo capito perché ieri sera abbiamo trovato posto qui: non ci viene più nessuno!

Per fortuna, durante le ricerche della sera precedente, avevamo notato un hotel che dalla giornata odierna avrebbe avuto camere libere. Ci precipitiamo lì: Hotel Melal, è un tre stelle, chiede 52 € per le camere doppie, è moderno, pulito e il personale simpatico e dinamico. Finalmente possiamo goderci due giorni interi a Esfahãn, che è veramente la città più bella. Il nostro hotel si affaccia sul fiume Zãyandé, vicino al famoso ponte Sï o Sé. Passeggiamo a piedi lungo il fiume, dove ci sono parchi e sale da tè all’aperto, attraversiamo il ponte (chiamato anche Ponte dei 33 archi), gremito di iraniani in vacanza, poi dopo pranzo ci facciamo portare da un taxi a vedere i “minareti oscillanti”, ovvero la Manãr Jombãn: questa è la tomba di Abu Abdollah, un venerato derviscio del XIV secolo. La sua particolarità è che, se si spinge con forza contro uno dei due minareti, entrambi cominceranno ad oscillare. Ogni ora, un addetto “scuotitore dei minareti” sale in cima ad uno di essi, invoca Allah e fa oscillare i minareti, per i tanti spettatori che si radunano ai loro piedi. Dopo questa curiosità, ci facciamo accompagnare dal taxi alla bellissima Emãm Khomeinï Square, che ospita alcuni dei più maestosi edifici del mondo islamico. È stata costruita nel 1612, misura 500 metri per 160, è circondata dall’incomparabile Masjed-è Emãm, dalla elegantissima Masjed-è Sheikh Lotfollãh e dal grandioso Palazzo Alï Ghäpũh. Tra l’uno e l’altro si aprono arcate eleganti e regolari, che ospitano negozi di oggetti di artigianato locale. Di fronte alla Masjed-è Emãm, dal lato opposto, c’è l’ingresso del bazar. Al centro della piazza c’è una enorme fontana, ornata da altissimi getti d’acqua che si incrociano in tutte le direzioni. Facciamo il giro completo: è l’ora del tramonto, ormai, e le splendide moschee si tingono dei colori oro e arancio del sole calante; uno spettacolo unico e indescrivibile. Ci ripromettiamo, l’indomani mattina, di visitare le due moschee e il palazzo, in compagnia di una guida che abbiamo incontrato durante la passeggiata, e che ci spiegherà un po’ la storia di questi luoghi. Mentre ci godiamo il bellissimo tramonto, inevitabilmente veniamo avvicinati dal proprietario di un negozio di tappeti: fatto piuttosto prevedibile da queste parti, visto che la Persia, e in particolare Esfahãn, è la patria dei tappeti. Effettivamente ne ha dei bellissimi, Enrico e Sarah iniziano per uno di essi la lunga contrattazione che è prevista in questi casi. Nel frattempo, io e Enzo ne vediamo uno che ci piace particolarmente per forma e colore; inoltre, non è molto grande e quindi riusciremo a caricarlo sulla moto, poi anche il prezzo è buono (dopo contrattazione ce lo dà per quasi la metà della cifra dalla quale era partito). Enrico e Sarah invece non concludono l’affare, il tappeto che hanno scelto è bellissimo ma molto grande e costoso, e il commerciante non scende alla cifra alla quale loro lo vogliono portare; quindi decidono di rinunciare, anche perché sperano, se riusciamo a passare dalla Cappadocia al rientro, di ritrovare un turco, commerciante di tappeti, che hanno conosciuto lo scorso anno e che pratica prezzi particolarmente convenienti. La sera ceniamo in un ristorante tipico, e al ritorno ci fermiamo in una sala da tè lungo il fiume a fumare il narghilè e a chiacchierare, nel massimo relax. Il mattino seguente è dedicato ad una più approfondita visita della città; in compagnia della guida che abbiamo conosciuto, visitiamo per primo il Palazzo Chehel Sotũn (quaranta colonne): il nome è dovuto alle 20 colonne che sorreggono il grande portico anteriore, che specchiandosi nell’acqua della grande piscina antistante, divengono 40, che è un numero molto ammirato nella lingua persiana. Ogni colonna, in legno, posa su una base di pietra a forma di leone, simbolo dell’Iran. È situato al centro di un bel giardino; i  saloni interni sono ornati da pregevoli affreschi con scene di battaglia e di vita di corte dell’epoca safavide. Si prosegue con la visita della bellissima moschea Masjed-è Jamè; è un vero e proprio museo dell’architettura islamica, poiché presenta tutti gli stili dal XI al XVIII secolo. Con i suoi 30.000 metri quadri, è anche la mosche più grande dell’Iran. Al centro del cortile principale si trova una bella fontana per le abluzioni, disegnata a imitazione della Kaaba della Mecca. Ritorniamo quindi alle splendida Emãm Khomeinï Square; visitiamo per prima la Masjed-è Emãm (la Moschea dell’Emam), senza ombra di dubbio una delle più belle al mondo. La ricchezza dei mosaici di piastrelle azzurre e le proporzioni perfette della sua architettura costituiscono un monumento straordinario alla creatività dello scià Abbãs I. Le fondamenta sono in marmo bianco e il portale, alto 30 metri, è decorato da motivi floreali, geometrici e calligrafici, eseguiti dai calligrafi più bravi dell’epoca. La moschea è rivolta in direzione della Mecca; nel cortile interno, chiuso da portici incorniciati da mosaici, c’è una grande vasca per le abluzioni rituali. Dal santuario principale si ha una vista molto bella sui due minareti turchesi che dominano il portale. La nostra visita prosegue con la moschea Masjed-è Sheikh Lotfollãh: si trova sul lato orientale della piazza, ed è dedicata al suocero di  Abbãs I. La cupola è realizzata in piastrelle color crema, che durante il giorno assumono varie sfumature, dall’avorio al rosato, a seconda della luce. Le piastrelle blu e turchesi tipiche di Esfahãn sono visibili solo intorno alla sommità della cupola. I mosaici della facciata contengono splendidi arabeschi e complicati motivi floreali. Questa moschea è insolita, perché non possiede né un minareto né un cortile, e perché l’entrata si trova in cima ad una scalinata. Il santuario si raggiunge attraverso un corridoio tortuoso. L’ultima meraviglia della piazza è il Palazzo Alï Ghäpũh: questa insolita costruzione a sei piani fu eretta all’inizio del XVII secolo, come porta monumentale (il nome significa Porta di Alï). La parte più interessante è senz’altro la terrazza sopraelevata, sostenuta da 18 sottili colonne, da cui si ha una bellissima prospettiva sulla piazza. Possiede splendidi soffitti lignei intarsiati e mosaici.

È ormai tardo pomeriggio, ci scateniamo nella visita dell’affascinante bazar cittadino, un lungo tunnel pieno di negozi, che collega la Emãm Khomeinï Square con la Masjed-è Jamè. Acquistiamo stoffe, pietre dure, miniature, scatolette d’osso, piatti in metallo sbalzato, cuscini ricamati, narghilè; tutto verrà caricato sulle povere moto, che assomigliano ogni giorno di più a cammelli da soma. La sera, dopo cena, tutti i pedalò sul fiume, a giocare a battaglia navale.

Il giorno seguente a malincuore ripartiamo da Esfahãn, diretti a Hamadãn, direzione nord, sulla strada del ritorno verso la Turchia. Arriviamo ad Hamadãn nel pomeriggio, la tappa è di 525 chilometri, e anche qui troviamo problemi con gli alberghi, tutti pieni. Hamadãn è una piccola città, e grazie al fatto che si trova  su un altopiano a 3580 metri, ha un clima relativamente fresco, rispetto al resto del paese; quindi tanti iraniani vengono qui in vacanza, proprio per il clima, e per visitare le grotte Alï Sadr, che sono vicine e che dicono essere bellissime. Dopo aver girato diversi alberghi inutilmente, cominciamo a scoraggiarci quando un ragazzino viene in nostro soccorso: ci mostra il biglietto da visita di una pensione e ci fa strada col suo motorino. Il nostro arrivo alla pensione scatena il finimondo tra i passanti: non hanno mai visto prima né un turista, né una moto di grossa cilindrata, figuriamoci poi tutte e due le cose assieme! Si forma il solito numeroso capannello di osservatori incuriositi intorno a noi e alle nostre cavalcature, rendendoci addirittura difficoltoso smontare i bagagli.

La Ariamanesia Pansion in realtà è una palazzina divisa in appartamenti: ce ne assegnano uno grande, con addirittura 12 posti letto; può fare al caso nostro, perciò Enzo scende al piano terreno a contrattare il prezzo col proprietario. Passano un paio d’ore e di Enzo nessuna traccia; io mi affaccio alla finestra, per vedere se per caso è sulla strada, appena in tempo per vederlo salire in macchina con un uomo (che poi scopriamo essere il proprietario dell’appartamento). Passano altre due ore: cominciamo a preoccuparci, però il problema è che in questo paese probabilmente non hanno mai visto turisti, perché nessuno spiaccica una parola di inglese; pertanto diventa difficile chiedere a qualcuno informazioni di qualsiasi tipo. Finalmente, alle 10 di sera, Enzo ritorna. Ci racconta che tutto il tempo che ha perso è stato a causa del fatto che, non avendo mai avuto a che fare con stranieri, il proprietario dell’appartamento non sapeva come comportarsi; pertanto, alla fine, dopo aver cercato invano qualcuno che facesse da interprete, ha caricato Enzo in macchina e insieme sono andati alla polizia a chiede lumi! Ovviamente i poliziotti si sono dilungati ad osservare il passaporto di Enzo, a farne mille fotocopie e a parlottare tra loro, perdendo altro tempo. Finalmente, alle 11.00 di sera,  il padrone di casa ci accompagna nell’unico ristorante aperto in zona, a mangiare qualcosa; per tutte le ore trascorse con Enzo, ha continuato ininterrottamente a parlargli in farsi. Enzo ovviamente non ha capito una sola parola, ma in compenso, per non fare brutta figura, ha continuato diligentemente a rispondergli “yes…yes…yes…!!”.

Il mattino seguente, (il nostro arrivo deve avere fatto notizia!) ad attenderci all’uscita della pensione c’è una giornalista televisiva (rigorosamente vestita in chador nero) con tanto di telecamera, che ci vuole intervistare. Haimè, non parla inglese, pertanto va a chiamare un impiegato della banca che sta di fianco alla pensione, che farà da interprete, impugnando il microfono mentre la giornalista ci riprende. Ci chiedono che città abbiamo visto in Iran, quanti giorni rimaniamo, cosa ci è piaciuto di più, che cosa pensano gli europei dell’Iran. Quando finalmente ci lasciano andare, partiamo con le moto, filmati dalla telecamera della giornalista. Siamo famosi!!

La meta odierna sono le grotte di Alï Sadr. Dopo circa 50 chilometri da Hamadan, non trovando indicazioni, chiediamo ad un distributore: un uomo col suo motorino si offre di farci strada, indicandoci una scorciatoia. Si inerpica, con noi dietro, per una strada che sale per una collina, tra villaggi di pastori con le tipiche case di argilla e paglia; poi la strada diviene sterrata, e a poco a poco si trasforma in un sentiero, o meglio, in una mulattiera. La cosa sarebbe in sé divertente, se le povere moto non fossero stracariche di peso eccessivo. Comunque, dopo aver passato anche un piccolo guado, questa scorciatoia ci porta quasi all’ingresso delle famose grotte. C’è uno strano contrasto, quasi fastidioso, tra i villaggi di pastori che abbiamo attraversato, che sembrano usciti da una stampa del secolo scorso, e l’ingresso delle grotte di Alï Sadr, estremamente turistico; ci sono bancarelle e negozi di souvenir ovunque. Per accedere alle grotte dobbiamo contrattare il prezzo del biglietto: come molti siti in Iran, anche qua il biglietto per i turisti costa molto di più di quello per gli iraniani. Chiedono per l’ingresso l’equivalente di 6 € a persona, ma in questo momento ci troviamo sprovvisti della cifra richiesta in rial; è il penultimo giorno che passeremo in Iran, e cerchiamo di cambiare poco denaro alla volta. Non accettano il pagamento in euro, e non sono in grado di cambiare soldi; siamo spazientiti, questa impossibilità a usare le carte di credito, sia per pagare che per prelevare contante, ci ha creato non pochi disagi; inoltre, non sempre ci sono banche nelle vicinanze, e se ci sono non sempre cambiano valuta estera.

Ci sediamo sconsolati su un muretto vicino alla biglietteria; dopo un po’ il bigliettaio ci chiama, e ci dice che ci può dare i biglietti ridotti. Raduniamo tutti i rial rimasti e ... sì, ce la facciamo a prendere i biglietti per tutti. Così entriamo a visitare queste famose grotte, scoperte 40 anni fa da un pastore del luogo alla ricerca di una capra sperduta; sono alte 40 metri e all’interno scorre un fiume dalle acque limpide, che in alcuni punti raggiunge una profondità di 14 metri. Aspettando il nostro turno per salire sulle barche che effettuano il giro delle grotte, facciamo conoscenza con una famiglia di iraniani: sono marito, moglie, una figlia di 18 anni e due bambine. Lui è medico cardiologo, ha studiato in Italia e si ricorda un po’ di italiano, così riusciamo a fare conversazione. Abitano in una città sul Mar Caspio, e sono in vacanza, in giro per l’Iran. Saliamo assieme sulle barche e visitiamo le bellissime grotte: arrivare fin qui è stato arduo, tra problemi di strade, di soldi mancanti per i biglietti, di lunghe attese per poter entrare; ma, a onor del vero, ne vale veramente la pena. La visita dura più di un’ora; le barchette di plastica, che ospitano al massimo sei persone, sono legate l’una all’altra in fila e vengono trainate da un pedalò: Gianni viene reclutato a pedalare, insieme ad un ragazzo del posto che tiene il timone. Le rocce delle grotte sono multicolori, ci sono formazioni di stalattiti e stalagmiti ovunque; ci sono faretti colorati che le illuminano, creando effetti veramente suggestivi.

Alla fine della visita, pranziamo in compagnia dei nostri nuovi amici. Il ristorante è un chiosco sotto un porticato, con i soliti soppalchi in legno. Mentre ci sediamo, ci sentiamo chiamare, in inglese, da un uomo che occupa, insieme a cinque donne, un soppalco vicino al nostro: è un iracheno che viene da Baghdad, è con la moglie e le figlie, e quando gli diciamo che siamo italiani si alza una vera e propria ovazione. Chissà perché noi italiani facciamo questo effetto? Iniziamo a conversare con loro, anche perché siamo molto curiosi di sentire qual’è realmente la situazione in Iraq. Loro sono lì in vacanza, e ci dicono che la situazione a Baghdad non è pericolosa (!!!!), perlomeno per loro che sono iracheni. Gli chiediamo se non hanno paura a vivere in Iraq in questo momento, ma ci rispondono di no, che comunque è la loro terra e che ci stanno bene.

Sono perplessi nei confronti degli americani, perché non capiscono cosa sono andati a fare a casa loro (come dargli torto?), ma sono persone veramente simpatiche. Dopo il pranzetto a base di riso e kabãb, salutiamo gli amici iracheni, mentre gli amici iraniani ci fanno strada con la macchina per una scorciatoia che ci farà risparmiare un po’ di chilometri, per arrivare alla meta di questa sera, Zanjãn. Sono 420 chilometri, ci arriviamo verso il tramonto. Per non entrare nella solita bolgia cittadina, ci fermiamo a dormire in un hotel all’interno di un’area di servizio. Quando chiediamo se hanno un garage o un parcheggio per le nostre moto, ce le fanno mettere dentro al bar (coffee shop, come lo chiamano qui) dell’hotel, entrando nella hall tramite le rampe che vengono usate per i disabili! Una scena da vedere, quattro moto impolverate che transitano nella hall e attraverso i corridoi dell’hotel, sui tappeti! Veramente incredibile!

Il giorno dopo, è l’ultimo di permanenza in Iran, purtroppo. Ci alziamo di buon ora e in un’unica tirata arriviamo a Bãzãrghãn, al confine Iran-Turchia; in un’oretta disbrighiamo le formalità iraniane, e serve un’altra ora per quelle turche. Appena varcato il cancello che divide il territorio turco da quello iraniano, io e Sarah chi togliamo immediatamente lo scomodo foulard e il camicione lungo che per dodici giorni ci hanno afflitto, facendoci soffrire terribilmente il caldo. Che liberazione! In compenso, questo fatto attira enormemente la curiosità di un gruppo di donne iraniane, nel rigoroso chador nero, che sono ferme col loro pullman alla frontiera turca e che stanno andando in vacanza in Siria. Ci osservano con grande interesse: due donne europee, senza velo e senza chador, non le hanno mai viste. Alla fine si fanno coraggio e ci chiedono se possono fare una foto vicino a noi. Tre tra le più anziane, poi, rimangono a fissarci come incantate per molto tempo.

Dopo questo simpatico episodio, visto che i nostri piloti hanno finito con la burocrazia, possiamo ripartire. Siamo nuovamente alle pendici del maestoso Ararat, innevato e circondato di nubi, rosse nella luce del tramonto. Passando per Dogubayazit, ci dirigiamo verso Van, che da qui dista circa 150 chilometri, dove vorremmo pernottare. È completamente buio ormai, e la strada è tutta di montagna. La temperatura in Turchia est è ben diversa dall’Iran: qui è piuttosto freddo dopo il tramonto, contrariamente alle serate torride iraniane. A un certo punto la strada diviene sterrata, rendendo lento e difficoltoso il cammino: buio e polvere ci tolgono la visuale, e Van sembra non arrivare mai. Finalmente, in lontananza, vediamo avvicinarsi le luci della città: sono circa le 23.00, siamo molto stanchi e sporchi, e oggi abbiamo percorso 876 chilometri, venendo da Zanjãn. Troviamo l’hotel dove avevamo pernottato io e Enzo due anni fa, durante la nostra vacanza tutta dedicata al Kurdistan. È il Büyük Asur Oteli, due stelle, economico e pulito, nel centro della cittadina. Siamo tutti a pezzi, però non rinunciamo a una cenetta a base di cucina turca, finalmente un po’ più varia di quella iraniana, seguita da un buonissimo “dondurma” (gelato) turco. Non contenti, dopo cena ci fermiamo a vedere tappeti in un negozietto e immancabilmente ne compriamo un altro. Il giorno seguente, costeggiamo il bellissimo Lago di Van fino all’altra città che sorge sulle sue sponde, Tatvan, fermandoci solamente di fronte all’isola di Akdamar a scattare qualche foto; passiamo ai piedi del vulcano Nemrut Dağı, che con le sue eruzioni ha causato il blocco del fiume e di conseguenza ha creato il lago, poi ci dirigiamo verso nord ovest. Dopo 582 chilometri, di cui almeno 100 di terribili strade sterrate, ci fermiamo a dormire a Malatya, all’Hotel Altin Kayısi: qui fanno tappa i viaggiatori che vanno a visitare all’alba il Nemrut Dağı, l’altro monte in Turchia che porta questo nome, oltre al vulcano del lago di Van. Questo Nemrut, più famoso dell’altro, è uno dei siti più belli e suggestivi di tutta la Turchia: sulla sommità della montagna furono erette in epoca pre romana, da Antioco I° Epifanie re di Commagene, otto colossali statue di divinità, sedute in trono. A causa di terremoti, le teste delle divinità sono rotolate ai piedi dei colossi, e così le possiamo vedere oggi, nella suggestiva luce dell’alba o del tramonto del monti dell’Antitauro. Questo sito è stato dichiarato dall’Unesco Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Varrebbe la pena fermarsi per la visita, se il tempo ce lo consentisse, ma purtroppo non è così, la mattina seguente ci attendono altri 475 chilometri fino alla Cappadocia.

Arriviamo a Göreme nel pomeriggio; ci sistemiamo in una graziosissima pensioncina ricavata in un pinnacolo di tufo, la Arif Pansion, situata nel punto più alto del paese: dalla terrazza della pensione si vede tutta la cittadina e la bellissima valle sottostante: qui si erano fermati Enrico e Sarah lo scorso anno, al rientro dal viaggio in Siria e Giordania fatto insieme a noi (loro erano rientrati una settimana prima). Nel nostro gruppo, Tiziano e Gianni non hanno mai visto la Cappadocia, quindi valeva bene la pena fermarsi qui. Il pomeriggio stesso riusciamo a visitare la valle di Göreme, i Camini delle Fate a Zelve, Uçhishar, Ürgüp e Ortahishar. Anche viste varie volte, sono sempre estremamente suggestive queste formazioni di tufo, che assumono le forme più strane e fantasiose: i paesi della Cappadocia assomigliano veramente ai paesi delle favole, abitati da folletti, che immaginavamo da bambini. Moltissimi dei pinnacoli sono stati scavati all’interno, per fungere da rifugio agli abitanti cristiani della regione ai tempi delle invasioni degli arabi, e alcuni sono stati trasformati in chiese rupestri, splendidamente affrescate con immagini sacre. Occorrerebbero almeno tre giorni per visitare bene questa zona, ma siamo sulla via del ritorno e il tempo purtroppo manca. Sarebbero molto belle da vedere anche le città sotterranee, la valle di Zelve e la valle di Ihlara, ma sarà per un’altra volta.

La sera Enrico e Sarah ritrovano il turco venditore di tappeti. Questo signore non ha un negozio, ma acquista direttamente da chi li produce i tappeti nuovi, e da chi li vuole vendere, i vecchi (i tappeti vecchi hanno molto valore in Turchia, come da noi un mobile d’antiquariato) per poi rivenderli ai negozi; quindi ha prezzi estremamente convenienti. Dopo una lunga e difficile decisione, perché ne vedono veramente tanti, finalmente ne acquistano uno; verrà caricato sulla moto di Gianni, che ha ancora un po’ di spazio disponibile.

Il mattino seguente visitiamo il “museo all’aria aperta” che si trova a Göreme: anch’esso dichiarato Patrimonio dell’Umanità, consiste in un gruppo di chiese, monasteri e cappelle di epoca bizantina, scavati nella roccia. Molti di essi sono decorati da bellissimi affreschi, datati tra l’XI e il XII secolo. Tra le chiese e i monasteri, le incredibili formazioni di roccia creano effetti unici e sorprendenti. Alla fine della visita saliamo ancora una volta in sella e partiamo con destinazione Bursa, 667 chilometri, che ci avvicinerà ai Dardanelli e alla Grecia. A Bursa arriviamo di sera, molto stanchi; dormiamo nel primo hotel che incontriamo, l’Hotel Kardes, tre stelle economico e pulitissimo. Ripartiamo la mattina presto: se ce la facciamo vogliamo raggiungere le Meteore, in Grecia, che Enrico e Sarah non hanno mai visto. Passiamo i Dardanelli con un piccolo traghetto, poi via verso il confine. Il passaggio della frontiera turca è incredibilmente veloce, forse perché è il 14 luglio, e tutti sono fermi nei siti di vacanza in attesa del ferragosto; in mezz’ora siamo liberi, e proseguiamo la nostra corsa attraverso la Grecia. Con la tappa più lunga di tutto il viaggio (a parte quella di Bam fatta da Enrico, Sarah, Gianni e Tiziano), 931 chilometri, raggiungiamo Trikala, che si trova ad una ventina di chilometri dalle Meteore. Questo è un grazioso paese, piccolo e non turistico; siamo stanchi morti, chiediamo indicazioni e ci indirizzano all’Hotel Divani. Ottima scelta, è in una piazzetta ombreggiata da grandi alberi, e al centro di essa ci sono dei localini caratteristici. Nonostante tutti i chilometri che abbiamo percorso in questo folle viaggio, dopo una doccia ristoratrice troviamo la forza di fare la nostra “ultima cena” in suolo straniero, a base stavolta di souvlaki, insalata greca e tzatziki. Il mattino seguente, Enrico e Sarah vanno a visitare le Meteore, in compagnia di Gianni e Tiziano. Quest’ultimo ci parla della visita:

“…nonostante aver già visitato due volte le Meteore accompagno volentieri Enrico Sarah e Gianni.

Le Meteore sono un raro fenomeno geologico, una stranezza della natura, che ha creato queste imponenti rupi chiamate così proprio perché sembrano sospese sulla pianura

Si tratta di un antico complesso monastico situato nella Grecia centrale, nelle montagne della Tessaglia, nei pressi di Kalambáka. Fondato dai monaci bizantini, il centro religioso delle Meteore sembra ospitasse già nel IX secolo asceti ed eremiti che scavarono dapprima nelle rocce più basse i loro rifugi.

A seguito dell’instabile situazione politica locale i monaci iniziarono a erigere i monasteri su scoscesi picchi di roccia che si innalzano sul fondovalle fino a un’altezza di 400 metri. I rifugi abbarbicati in cima a impervie pareti rocciose e come sospesi tra terra e cielo presero allora il nome di Meteore (in greco la parola significa “che sta in alto, che sta nel cielo”). La costruzione dei monasteri si protrasse fino al XVI secolo.

Al momento del suo massimo splendore, il complesso comprendeva 24 monasteri ricchi di icone, arredi e affreschi. Per lungo tempo il trasporto di persone e di provvigioni venne effettuato mediante rudimentali sistemi di montacarichi a carrucola e scale a pioli.

Il centro religioso delle Meteore è stato dichiarato nel 1988 dall’UNESCO Patrimonio dell'Umanità.

Purtroppo per problemi di tempo, decidiamo di visitare solo la Grande Meteora; ormai la nostra “fantastica” vacanza sta giungendo al termine, e il traghetto ci attende inesorabilmente ad Igoumenitza…”.

Nel frattempo io e Enzo invece, che le abbiamo già visitato le Meteore varie volte, finalmente ci alziamo tardi dopo tante levatacce, e pigramente passeggiamo per il grazioso paese di Trikala. È il giorno di ferragosto, anche i greci fanno festa; infatti sono tutti in giro per il centro o seduti ai tavolini dei tanti locali che si affacciano sulla via principale, intenti a sorseggiare il loro “frappè” (caffè shakerato), bevanda che qui in Grecia va per la maggiore. È il nostro ultimo giorno di vacanza, stasera ci imbarchiamo, domattina saremo già in Italia e a casa. Dire che siamo afflitti è dire poco, ma è stata una bellissima esperienza, forse proprio perché difficile; inoltre, abbiamo potuto vedere paesaggi meravigliosi e selvaggi, città nel deserto che sembrano castelli di sabbia, moschee grandiose e uniche al mondo, siti archeologici di sublime bellezza. Abbiamo potuto conoscere da vicino gli iraniani, e così apprezzato la loro incredibile disponibilità, ospitalità e voglia di vivere e di conoscere quello che sta al di fuori del loro paese.

Quando tornano i nostri amici è ora di pranzare; scegliamo uno dei localini della piazza: pranzetto a base di souvlaki, giros, insalata greca e l’immancabile tzatziki, poi ultima fatica verso Igoumenitza: 242 chilometri molto difficili, la strada è tutta curve e tornanti, però molto bella dal punto di vista panoramico. Arriviamo al porto alle 19.20, appena in tempo, alle 20.00 dovremmo imbarcarci. La nostra nave non è ancora arrivata: magari non arrivasse mai, così potremmo rimanere in vacanza ancora un po’!!!

Il nostro desiderio purtroppo sfuma, la Superfast XII, che domani ci riporterà alla dura realtà quotidiana, sta entrando in porto. Con commozione dobbiamo salutare Gianni, che infatti partirà con un’altra nave alle 24.00, per sbarcare domattina alle 8.00 a Bari: poi lo attenderanno altri 700 chilometri fino alla bella Ragusa. Gianni si è dimostrato un compagno di viaggio fantastico, sempre tranquillo, sereno e disponibile: speriamo di poter ripetere un’altra esperienza come questa insieme a lui.

Dobbiamo imbarcarci dunque: carichiamo le moto, poi saliamo alle nostre cuccette; facciamo una bella doccia e poi cena al self service della nave. Siamo veramente tristi, tutti silenziosi e a testa bassa, e questo è il nostro umore anche il mattino seguente: non riusciamo a riprenderci dall’avvilimento, la grande avventura è finita.

Arrivati ad Ancona, sbarchiamo: il momento dei saluti è sempre il più difficile, la nostra è una grande squadra, affiatata e ben collaudata da due viaggi impegnativi ma bellissimi come Siria e Giordania 2003 e Iran 2004. L’unica speranza che ci può risollevare dalla tristezza è quella di poter fare un altro viaggio insieme.

Aspetti positivi del viaggio, secondo noi:

-                      i bellissimi panorami del deserto roccioso

-                      la popolazione estremamente simpatica, disponibile ed ospitale

-                      le donne col chador che ti fermano per strada per chiacchierare

-                      scoprire un mondo molto diverso da quello che conosciamo

-                      Il costo della vita molto basso, rispetto ai nostri standard: vedasi la benzina al costo di 0,08 centesimi di € al litro

Aspetti negativi del viaggio, secondo noi:

-                      in luglio-agosto fa veramente molto caldo, arrivare a + 50 gradi è facile

-                      l’impossibilità di usare i cellulari

-                      l’impossibilità di usare le carte di credito e/o i maestro per pagare e/o prelevare

-                      il “look” islamico per le signore; col caldo è insopportabile

Qualche prezzo:

-                      traghetto Superfast da Ancona a Igoumenitza: 183 € a persona, andata e ritorno, in cuccetta; 76 € per la moto, sempre andata e ritorno

-                      invito da parte del Tour Operator iraniano “Arg E Jadid”: 50 € a persona

-                      visto turistico rilasciato dal consolato iraniano: 40 € a persona

-                      carnet de Passage rilasciato dall’ACI: 78 €

-                      fideiussione bancaria x ottenere il Carnet de Passage: 250 € per l’Africa Twin

-                      pieno di benzina nell’Africa (serbatoio da 23 litri) 0,08 centesimi di €

-                      pranzo o cena in locanda, da 1 a 2 €

-                      pranzo o cena in un ristorante elegante, da 4 a 6 €

-                      pernottamento in hotel 3 stelle, da 40 a 50 e per la camera doppia

Preparazione moto: Africa Twin

-                      irrigidito la sospensione

-                      montato camere d’aria da cross

-                      sostituito pompa della benzina elettrica con quella a depressione

-                      montato presa di corrente 12 volt

-                      montato paracarena (Touratech)

-                      montato pedalini e leva del cambio da cross (Touratech)

-                      montato parafanali in plexiglass (Touratech)

Ricambi portati: Africa Twin

-                      candele

-                      camere d’aria

-                      filo frizione

-                      una bottiglietta d’olio

-                      kit antiforature (Touratech)

Inconvenienti occorsi:

-                      sull’Africa abbiamo dovuto rimettere le candele originali Honda perché quelle all’iridio, con le temperature altissime del clima iraniano in estate (fino a 50 gradi di giorno, 40 gradi di sera) facevano spegnere l’Africa, che non ripartiva finché non si raffreddavano.

-                      sempre sull’Africa, la pompa a depressione non è stata una buona idea: con serbatoio vicino alla riserva e la strada in salita, faceva fatica a pescare benzina. Rimetteremo la pompa elettrica.

-                      la Shadow ha avuto un piccolo problema con il radiatore, dove si era formata una piccola perdita: è stata perfettamente riparata con una saldatura a regola d’arte dal giovane meccanico di Tehran, come descritto nel racconto, che ha fatto il lavoro del tutto gratuitamente.

Qualche informazione pratica:

-                      i distributori di benzina si trovano con frequenza, ogni 30, massimo 60 chilometri; solo nei brevi tratti di autostrada può capitare di non trovarli, ma sono tratti di al massimo 100 chilometri. Non si trova la benzina verde in Iran, mentre in Turchia sì; in Iran si trovano esclusivamente benzina super e gasolio. Comunque le moto sono andate benissimo anche a super!!!

-                      contrariamente a quanto pensavamo, le strade in Iran sono in ottime condizioni, le carreggiate larghe, l’asfalto buono, c’è segnaletica quasi sempre; invece, per attraversare la Turchia est (diciamo da Ankara in poi) le strade sono disfatte, strette, piene di buchi, con tratti di parecchi chilometri completamente sterrate, sia andando da Ankara verso Dogubayazit che, al ritorno, da Dogubayazit verso Van e proseguendo, verso la Cappadocia. Andando a ovest della Cappadocia invece ridivengono discrete.

-                      i cartelli di indicazione di strade e paesi sono frequenti e scritti anche in inglese in Turchia, mentre in Iran sono molto più rari e quasi sempre scritti in farsi. Gianni aveva con sé un navigatore satellitare GPS, con quello e con le tradizionali carte stradali (la nostra è prodotta dallo STUDIO FMB di Bologna ed è molto precisa) non ci siamo mai persi. In ogni caso, se avevamo dubbi abbiamo sempre trovato persone gentilissime pronte a darci indicazioni o ad accompagnarci sui luoghi.

-                      Durante gli spostamenti, per mangiare ci siamo, come sempre del resto, fermati nelle taverne frequentate da camionisti, dove in genere si mangia bene: dove vedevamo molti camion parcheggiati significava che la cucina era buona. I Turchia che ne sono tante, mentre in Iran, anche perché le distanze tra una città e l’altra sono sempre enormi, se ne trovano molte meno; quando se ne incontrava una conveniva fermarsi, perché poteva accadere che per altri 200 chilometri non vi fosse più nulla.

-                      Guida utilizzata EDT - LONELY PLANET – IRAN

-                      Chilometri percorsi: Flavia e Enzo 10.700, Enrico e Sarah 11.700 (+ 1.000 di Bam), Tiziano 12.200 (+ 1.000 di Bam + 500 Milano-Ancona andata e ritorno), Gianni 14.000 (+ 1.000 di Bam + 1.400 Ragusa-Bari andata e ritorno)

  le foto le trovate qui