IL VENTO E IL LEONE

il primo incontro con il Sahara

È difficile resistere alla seduzione del Marocco, che è capace di creare, sotto gli occhi degli stranieri che lo visitano per la prima volta, incanti straordinari e inaspettati. Basta entrare in una “medersa” silenziosa  e mettersi ad ascoltare lo scorrere dell’acqua nella fontana, fermarsi a guardare uno “ksar”, immenso e fragile gigante di sabbia, o basta affacciarsi alla porta di una moschea durante l’ora della preghiera, assistere allo spettacolo quotidiano dei souk, bere un tè alla menta offerto da un mercante chiacchierone, guardare l’incanto di un serpente che si muove al suono di un flauto. E poi inoltrarsi per chilometri di sterrato per giungere, alla fine, alla porta del deserto, la soglia di un nulla di sabbia sconfinato nel quale si potrebbe, con uguali possibilità, trovare se stessi o perdersi per sempre.

Questo e molto altro c’è da vedere in Marocco, come le città imperiali e i loro splendidi palazzi, le verdi montagne del Rif, l’affascinante Tangeri e i suoi ricordi di spionaggio e mondanità, le piccole città della costa, di influenza spagnola e portoghese, il deserto, le montagne dell’Atlante, e infine la regione sahariana.

Partiamo da Bologna di mattina presto, diretti verso Genova; è l’inizio di agosto, anche stavolta siamo soli, non abbiamo trovato compagni di viaggio. Passiamo il confine con la Francia a Ventimiglia e proseguiamo sulle costose autostrade francesi. Ci fermiamo a mangiare un panino in un’area di servizio, per poi proseguire. Il nostro intento è riuscire a percorrere più strada possibile finché siamo ripostati, visto che dobbiamo attraversare la Francia e la Spagna per arrivare ad Algeciras, dopo Gibilterra, dove partono i traghetti per Tangeri, e visto che il Tenerè 600 non spicca per le sue caratteristiche di comodità sulle lunghe distanze. Le condizioni atmosferiche non sono delle migliori, pioviggina ed è freddo, per essere agosto. Ad uno dei vari caselli autostradali che attraversiamo abbiamo un piccolo incidente: siamo in fila dietro ad un camper, in attesa di ritirare il biglietto, quando improvvisamente il camper fa retromarcia e ci piomba addosso. La moto cade e noi pure, ma non ci facciamo nulla, la moto solo qualche graffio.

Nel pomeriggio, sempre dall’autostrada, attraversiamo la cosiddetta “porta di Carcassonne”, poco dopo la Camargue. In questa zona soffia perennemente un vento fortissimo, che rende pericoloso e difficile viaggiare in moto. Finalmente riusciamo a superare il tratto ventoso, e arriviamo a Narbonne, dove decidiamo di fermarci a dormire. Fa già buio e abbiamo percorso 900 chilometri. Troviamo un campeggio a Narbonne Plage, il Camping “La Falaise”, e montiamo l’igloo. Anche qui fa freddo e soffia un vento forte. Andiamo a cena in paese, in un ristorante sul lungomare dove c’è un ricchissimo buffet; il prezzo è fisso e si può prendere ciò che si vuole. Mangiamo molto bene e dopo cena facciamo due passi lungo la spiaggia, ma il vento freddo ci scoraggia presto. Siamo stanchi e andiamo a dormire; i sacchi a pelo estivi non sono sufficienti a ripararci dal freddo, quindi dormiamo con felpe e giacche da moto indosso. La mattina seguente, molto presto, ripartiamo. Anche oggi ci attende un lungo tragitto. Dopo un centinaio di chilometri passiamo il confine con la Spagna, e dopo poco superiamo anche Barcellona. Sosta rapida per il pranzo nella solita area di servizio e si riparte. Nel tardo pomeriggio arriviamo a Valencia, e troviamo da dormire nella località balneare di Playa de Gandia, al camping “L’Alqueria”. La sera andiamo a passeggio per il grazioso centro del paese, e gustiamo un’ottima paella alla valenciana in un piccolo ristorante caratteristico. 

Il mattino seguente si riparte, e verso sera arriviamo a Torre del Mar, poco prima di Malaga, dove ci fermiamo a dormire al camping “Laguna Playa”, sul mare.

Il mattino dopo ripartiamo, nel tardo pomeriggio passiamo proprio sotto la rocca di Gibilterra. Dopo pochi chilometri arriviamo ad Algeciras, dove ci imbarchiamo per il Marocco. Per arrivare fin qui dall’Italia abbiamo percorso circa 2.700 chilometri. Il traghetto impiega un’ora circa per la traversata fino a Tangeri, dove arriviamo all’imbrunire. La guida Lonely Planet ci indica un albergo 2 stelle, l’Hotel Charf; è decoroso, costa poco ed è proprio vicino al porto. In Marocco ci sono pochissimi campeggi, e il prezzo degli alberghi non giustifica la fatica di cercare un campeggio né tanto meno quella di montare la tenda e di dormire per terra.

Dopo la doccia scendiamo a passeggiare x la città cercando un ristorante. Tangeri: il suo nome evocava in passato traffici loschi, feste miliardarie, spionaggio internazionale, intrighi di fantapolitica e una vita culturale che poche città europee potevano vantare. Oggi è una metropoli sporca, disordinata e, in alcune zone, perfino pericolosa; posta sull’estrema punta occidentale del Marocco, in faccia allo Stretto di Gibilterra, dalla quale è separata solo da dieci miglia, ha il privilegio di essere bagnata da due mari, e possiede un clima invidiabile, non troppo caldo e sempre asciutto; solo ogni tanto soffia il “chergui”, il vento arido che arriva dall’Algeria. Fu scalo commerciale dei Fenici, i Romani la trasformarono in una delle più importanti province nordafricane, dandole il nome di Tingis; poi Vandali, Bizantini, Visigoti, Arabi e Berberi si alternarono al predominio. I portoghesi la conquistarono insieme a Ceuta, e fecero abbattere quasi tutte le moschee per costruire chiese cattoliche al loro posto. I portoghesi poi la cedettero agli inglesi, sotto il cui governo la città rifiorì; però, a causa della sua posizione strategica, faceva gola a molti paesi europei, e più tardi arrivarono anche i francesi, che per Tangeri rappresentarono il periodo aureo. Oggi ha un porto attivo, industrie tessili e alimentari in espansione, ed è meta del turismo internazionale.

Anche qui, come in tutto il Marocco, capita spesso di venire fermati per strada da uomini o ragazzi che cercano di venderti qualcosa o si offrono di accompagnarti da qualche parte, dietro ricompensa. È un fastidio inevitabile; l’atteggiamento migliore è una cortese indifferenza, ed essi dopo qualche insistenza si allontanano. Per questa gente, un turista che si aggira per strada rappresenta una possibile fonte di guadagno, e non si lasciano sfuggire ogni pur minima occasione.

Tangeri è una città piena di vita; la sera c’è un sacco di gente allegra in giro fino a tardi, e nessuno ci importuna, a parte qualche sporadico “agganciaturisti” che ci vuole per forza trovare un albergo ma viene gentilmente scoraggiato.

Troviamo un ristorante che sembra carino ed entriamo. Effettivamente si mangia bene: “tajine” di pollo, verdure, cous cous.

La mattina seguente visitiamo la Medina, cioè la città vecchia, circondata da mura lungo le quali si aprono le “bab”, porte monumentali. Nelle medine si entra quasi esclusivamente a piedi, e la loro struttura è simile ad un labirinto; vi si trova il souk, le moschee più antiche ed i monumenti.

Giriamo un po’ nel souk, ma molti negozi sono chiusi, nonostante siano già le 10,00 del mattino. Come scopriremo, in Marocco la gente si alza tardi e va a letto tardi, gli orari per svolgere le normali attività quotidiane sono completamente sfasati rispetto all’Italia e all’Europa. Subito dopo la visita della Medina di Tangeri, partiamo in direzione della città imperiale di Meknès.

Da Tangeri ci spostiamo a sud costeggiano l’Atlantico. Ci sono lunghe spiagge deserte, e sull’oceano aleggia una coltre di nebbia che quasi lo nasconde alla vista. All’altezza di Larache la strada gira verso l’interno, in direzione di El Ksar el Kbir. Prima di arrivare a Meknès ci fermiamo a visitare il bel sito archeologico, di epoca romana, di Volubilis, che si trova a 5 chilometri da Moulay Idriss. Moulay Idriss è la seconda città santa dell’Islam dopo la Mecca, ed è arroccata su una collina dalla quale si vede il panorama della vallata. La cittadina porta il nome del suo fondatore, diretto discendente di Maometto e capostipite della prima dinastia araba marocchina. A parte la posizione molto suggestiva, in realtà non c’è molto da vedere in questo villaggio di case cubiche imbiancate a calce; una volta all’anno, durante il “moussem”, pellegrinaggio che ha luogo l’ultimo giovedì di agosto e dura un mese, esso si anima di visitatori e pellegrini che provengono da tutto il Marocco per vedere il mausoleo di Moulay Idriss.

A Volubilis il cielo è nuvoloso, e il colore plumbeo delle nubi crea un’atmosfera surreale in questa città morta, adagiata in una vallata verde e alberata. Fondata dai romani nel III° secolo, era una importante città commerciale, essendo luogo di estrazione del rame e di produzione di olio. Quando arrivarono gli arabi, fu spogliata dei suoi marmi per costruire i palazzi di Moulay Idriss, ed in seguito il colpo di grazia le fu inferto da un terremoto, nel 1755. Solo nel XIX° secolo fu riscoperta dagli archeologi, e gli scavi proseguono tuttora. Anche se i palazzi sono poco più che rovine e le statue ritrovate sono state portate al museo di Rabat, è possibile ammirare ancora qualche splendido edificio: l’Arco di Trionfo dell’imperatore Caracalla, sorretto da colonne di marmo, la Porta di Tangeri, unica rimasta delle otto che cingevano la città, il Campidoglio, la Basilica, il Foro, nel quale avevano luogo i comizi e le assemblee cittadine, e i Bagni Pubblici. Ci sono pochissimi turisti, la luce color argento del cielo che contrasta con i campi verdi e gialli e gli alberi che stormiscono nel vento ci lasciano un ricordo indelebile e suggestivo di Volubilis.  Abbiamo finito la visita e ci fermiamo a bere un tè caldo alla menta al chiosco vicino all’uscita. I nuvoloni iniziano ad incupirsi sempre più, soffia un vento forte e caldo, e dopo pochi minuti si scatena un temporale. Aspettiamo che spiova sorseggiando svariati tè alla menta, e finalmente ci rimettiamo in cammino; vorremmo arrivare a Meknès prima che faccia buio. Prendiamo un po’ di pioggia ma riusciamo ad arrivare alla meta non troppo bagnati; il clima è cambiato, da piacevole e ventilato com’era a Tangeri e sulla costa dell’oceano, spostandosi all’interno, al riparo dei monti dell’Atlante, il caldo è umido e soffocante. L’albergo che troviamo a Meknès è l’Hotel de Nice, 3 stelle, ma a dispetto del nome e delle stelle è scadente: le camere sono veramente essenziali, non c’è aria condizionata, i letti sono piccolissimi e il bagno cade a pezzi; inoltre notiamo che, tramite il bar del pianterreno, nel quale ci sono alcune ragazze dal comportamento equivoco, funge anche da casa di appuntamenti. Vediamo le ragazze salire e scendere dalle camere con i clienti.

Andiamo a cena in una locanda vicina, dove mangiamo la tradizionale “tajine”, e dopo aver fatto quattro passi per il centro della città, torniamo in albergo. Dormire risulta un problema, a causa del caldo terribile; proviamo a bagnare le lenzuola con l’acqua dei rubinetti per avere una breve sensazione di fresco, ma è inutile. Neanche mettersi sotto la doccia fredda migliora molto la situazione: dopo pochi minuti, il corpo si asciuga, le lenzuola pure, e il caldo impedisce di dormire.

Il giorno seguente, appena messo piede fuori dall’albergo, veniamo immediatamente avvicinati dal solito ometto che si offre di farci da guida; ci dice che possiamo seguirlo con il Tenerè, mentre lui ci farà strada col suo motorino. Contrattiamo il prezzo, e partiamo per la visita della città.

Meknès è tappa d’obbligo per chi fa il giro delle città imperiali, possiede 25 chilometri di mura fortificate, palazzi imperiali grandiosi e imponenti, un souk animato di mercanti e mercanzie. Si trova su di un altopiano attraversato da fiume Boufekrane, e come molte città del Marocco, è divisa in due: da una parte la Città Nuova, costruita dai francesi agli inizi del secolo, dove si trovano gli alberghi per turisti, le banche e gli uffici, dall’altra la Medina, con il souk animato e i monumenti. Inoltre è la principale produttrice di vino marocchino e di tappeti berberi.

Meknès fu il centro del regno di Moulay Ismahil, folle e sanguinario, che ne fece la sua capitale e la riempì di splendide opere architettoniche. Attraverso la bellissima Bab Mansour, porta monumentale mirabilmente decorata di piastrelle bianche e verdi, si entra nella vera e propria città imperiale: subito dopo la porta c’è la Place Alla Aouda, dove si trovano il padiglione nel quale venivano ricevuti gli i ambasciatori stranieri, Koubbe el Khiyatine, e un porticato semicircolare nel quale gli artigiani arabi lavorano la lana. L’impatto è bellissimo: boccoli di lana candida, battuti con speciali arnesi, vengono ammonticchiati in cataste che contrastano con l’ocra dello sfondo. Da Place Alla Aouda si ha accesso al Mausoleo di Moulay Ismahil, l’unico, insieme a quello di Mohammed V° a Rabat, nel quale possono entrare anche i non musulmani, magnifico nella sobrietà della struttura e nella ricercatezza delle decorazioni. Si entra nei cortili, ma non nella sala in cui si trova la tomba del sultano, visibile solo da lontano. Poco distante dal mausoleo si trova Dar Kebira, il più imponente e sontuoso dei palazzi fatti costruire da Moulay Ismahil, distrutto però dal figlio, che salì al trono nel 1727, e del quale restano solo poche rovine. Sempre all’interno della città imperiale, visitiamo la Medersa Filala, risalente al XVII° secolo e la Medersa Bou Inania, del XIV° secolo, dalla cui terrazza si abbraccia con uno sguardo tutta la città antica, la Grande Moschea e il Dar Jamal, bellissimo palazzo in stile tradizionale marocchino, che si trova dalla parte opposta della Place  el Hadim rispetto alla Bab Mansour. Questo palazzo ospita il Museo delle arti tradizionali Marocchine, con una interessante collezione di stoffe e tappeti. Quanto alla Medina vera e propria, non resistiamo alla tentazione di immergerci nel labirinto di stradine, passeggiando senza meta tra botteghe di artigiani che lavorano il legno, negozi di tappeti e di argenteria e bancarelle di frutta. Rimaniamo colpiti in modo particolare da un artigiano che nella sua piccola bottega lavora il ferro, ottenendone vasi, piatti, statue di animali e bracciali, che poi rifinisce con bellissimi intarsi d’argento, il cui colore simile al ghiaccio ha un forte contrasto col colore bruno del ferro. Compriamo da lui un cavallo, alto una trentina di centimetri, in ferro ricamato d’argento su tutto il corpo, e un bracciale per me, fatto con la stessa tecnica. L’artigiano ci spiega che questa particolare lavorazione del ferro decorato con l’argento è tipica di Meknès, e viene realizzata solo qui. In effetti, nel corso del nostro viaggio, non vedremo mai più niente di simile. Naturalmente, veniamo agganciati da un venditore di tappeti molto simpatico e abile, perché, nonostante la nostra ferma convinzione a non acquistare tappeti se non alla fine del viaggio, per non dovere ogni giorno montarlo e smontarlo dalla moto, alla fine ci convince, dopo avercene mostrati un centinaio almeno, e ne portiamo via uno. È un kilim a fondo rosso, con disegni geometrici di vari colori. Dopo aver mangiato velocemente uno spiedino di carne in un chiosco all’interno della Medina, andiamo a visitare i magazzini del grano, chiamati Heri as Souani, fuori dalla Città Vecchia; i locali, immensi e divisi in 23 navate, servivano per la conservazione del grano ed erano tali da garantire il rifornimento alla città anche in caso di assedio. Dalla terrazza che li sovrasta si gode una vista a 360 gradi della città. Di fianco ai magazzini il Bacino Aguedal raccoglieva l’acqua necessaria alla popolazione e all’irrigazione dei giardini del sultano. Stessa magnificenza hanno le Stalle Regie, che potevano contenere 12 mila cavalli e altrettanti stallieri; un canale convoglia le acque nelle stalle in modo che i cavalli potessero abbeverarsi senza uscire dai loro recinti. Sempre accompagnati dalla nostra guida motorizzata, alla quale ho detto della mia passione per i cavalli, andiamo a visitare un allevamento di cavalli arabi e berberi; non sarebbe aperto al pubblico, ma grazie alla nostra guida, che ha un amico che lavora là, ci fanno entrare. Il posto è bellissimo, in mezzo ad un grande parco pieno di alberi, con grandi recinti bianchi e prati verdi, e giardini con aiuole piene di fiori. I cavalli adesso sono tutti nelle scuderie, perché fa molto caldo; le scuderie sono fatte a mezza luna, affacciate intorno ad un cortile ombreggiato da alti alberi, e sono divise in due reparti, uno per i cavalli arabi, uno per i cavalli berberi. Sono quasi tutti stalloni, e deduciamo che questo luogo probabilmente funge anche da stazione di monta; i cavalli, oltre che molto belli, sono anche ben governati. Uno degli uomini di scuderia, in cambio di una piccola mancia, prende fuori uno degli stalloni berberi, un baio ciliegio dal pelo lucidissimo, e dopo di esso un bello stallone arabo sauro; li fa esibire entrambi in alcune impennate a comando, mentre noi ed un altro paio di visitatori li fotografiamo. Rientriamo dall’escursione nel tardo pomeriggio, sistemiamo il Tenerè in un parcheggio custodito accanto all’albergo e saliamo in camera a sistemarci per la cena. Nell’hotel c’è il solito via vai di ragazze e clienti.

La sera mangiamo spiedini di carne e insalata in una specie di bar-fast food, ed evidentemente qualcosa nel cibo non è fresco, perché la notte facciamo la staffetta a correre in bagno. Il giorno seguente non siamo molto in forma, anzi, a dire proprio la verità, sembriamo due zombi, ma nonostante tutto andiamo a visitare Fès, che dista da Meknès solo una sessantina di chilometri. Fès, a detta di molti, è la città più affascinante del Marocco, più intrigante perfino della stessa Marrakech, forse perché meno assediata dal turismo e quindi più autentica. Le sue mura rossastre, i suoi palazzi magnifici, la sua Medina incredibile lasciano un ricordo indelebile nei visitatori. Dappertutto si respira un’aria di cultura difficilmente rintracciabile altrove; non per niente la sua università è conosciuta  da secoli e molti degli intellettuali marocchini sono nati qui o vi hanno studiato per anni. Fès è divisa in tre parti distinte, cosa che provoca un senso di disorientamento iniziale a chi arriva: Fes el Bali, l’antica Medina fondata da Moulay Idriss e dichiarata monumento nazionale, Fès el Jedid, la nuova Medina, e la Città Nuova, eretta dai francesi ai tempi del protettorato, con ampi viali alberati e grandi piazze. Il contrasto fra le varie parti della città è sorprendente e fa di Fès un luogo dai mille volti. Prendiamo la strada Tour de Fès, che circonda Fès el Bali e Fès el Jedid; sono 15 chilometri di percorso che, partendo dalla avenue Hassan II°, seguono la linea sinuosa della collina sulla quale sorge parte della città. Percorrendo la route costeggiamo le mura color ocra e ci fermiamo a visitare, a nord della città, le tombe dei Merinidi, avvolte nel mistero perché non si sa ancora chi è sepolto dietro le lastre di marmo bianco, e la fortezza di Borj Nord. Da qui si può godere il panorama dell’intera Medina. Ritornando verso la Medina, ci fermiamo a visitare una fabbrica di ceramiche, dove ci mostrano l’intera lavorazione, dalla modellazione dell’argilla sui torni in legno mossi a pedali, alla cottura dei manufatti in forni alimentati a sansa, al disegno delle complicatissime decorazioni, alla successiva pittura a mano degli oggetti stessi. Durante la nostra visita, tutti gli operai ad un tratto si fermano e si radunano sotto una tettoia dove stanno distesi dei tappeti: è l’ora della preghiera, e si inginocchiano tutti quanti rivolti nella stessa direzione, quella della Mecca. Ci allontaniamo perché ci sentiamo inopportuni, ci sembra di disturbare. Finita la preghiera, tutti riprendono il lavoro; acquistiamo alcuni oggetti di ceramica veramente bellissimi, e proseguiamo nella visita della città. Iniziamo con la Medina, alla quale si può accedere da diverse porte; noi entriamo dalla principale, la Bab Boujeloud, e ci ritroviamo immediatamente in un groviglio di stradine e passaggi: qui dentro il progresso è solo una parola sconosciuta e senza significato, la vita qui si muove a ritmi che non è esagerato definire medievali. Gli artigiani lavorano con strumenti manuali vecchi di secoli, le donne cuociono il pane al forno pubblico, gli asini vanno e vengono carichi di merce e sono, tra l’altro, l’unico mezzo di trasporto utilizzabile all’interno della Medina, da noleggiare come se fossero dei taxi per spostarsi da un luogo all’altro. Ogni zona ospita una corporazione di artigiani, ogni bottega ha un maestro, chiamato “mallem”, che insegna il mestiere ai giovani apprendisti. Colori, suoni, profumi, tutto si mescola e confonde davanti ai nostri occhi, trasformandosi in uno spettacolo continuo che inizia alle prime ore dell’alba e non termina fino a dopo il tramonto. Dalla Bab arriviamo alla medersa merinide di Bou Inania, una delle più belle di tutto il Marocco. L’entrata conduce ad un cortile centrale le cui pareti sono decorate a stucchi intagliati; in mezzo si trova la vasca per le abluzioni, continuamente alimentata dall’acqua dello Oued Fès. Dal cortile immense porte di legno di cedro intagliato conducono a diverse sale: i non musulmani non possono accedere a quella riservata alle preghiere. Al primo piano si trovano le stanze per gli studenti e quelle dei maestri religiosi. Proseguendo lungo la Talaa Kebira si arriva alla moschea Karaouyine, che per dimensioni può essere paragonata solo alla nuova moschea di Hassan II° a Casablanca. Può contenere circa 20 mila fedeli, un quinto di quelli che vivono nella Medina. Comunque, qui il vero spettacolo sono i souk, ognuno dei quali raggruppa per categorie botteghe e laboratori artigianali; verso la fine della Talaa Kebira l’aria è impregnata dall’odore intenso delle pelli, provenienti dai fondouk degli artigiani del cuoio. È qui che vengono immagazzinate ed essiccate le pelli prima delle operazioni di tintura. Poco più avanti hanno inizio le bancarelle che vendono le “babouches”, le famose scarpe marocchine a punta fatte di pelle di cammello. Poi segue il souk Attraine, interamente dedicato alle spezie: esposti in grandi mucchi colorati, si possono trovare zafferano e curry, tè verde, menta essiccata e tutte le spezie che servono per cucinare la “tajine”. Sotto il souk si trova il sepolcro di Moulay Idriss, fondatore di Fès. Invece il souk “Nejjarine” è dedicato ai falegnami; le stradine sono impregnate dell’intenso profumo del legno di cedro, che gli artigiani intagliano ricavandone mobili, suppellettili, tavolini da tè, scatole e oggetti di ogni genere. Poco distante il souk dell’”Hennè” è popolato di botteghe che vendono ogni tipo di prodotto di bellezza  o medicinale, a cominciare dalla polvere dalla quale prende il nome, che le donne usano per dare ai capelli una tonalità rossastra, lo shampoo in scaglie, la corteccia di noce da usare come dentifricio, i bastoncini di “kohl” per truccare gli occhi, fino ad arrivare alle polveri medicinali per curare i raffreddori, per dare energia o per rilassare. Ma la mercanzia di cui gli speziali vanno più orgogliosi, e che non mancano mai di mostrare ai turisti con un sorriso malizioso, sono gli afrodisiaci, come la cantaride o il ginseng. Vicino alla moschea Kairouyine si trova Place Seffarine, popolata di botteghe di fabbri; per arrivarci basta farsi guidare dal rumore del martello che batte sul metallo forgiando serrature, testiere di letti, lampade e ogni genere di recipiente. Una volta giunti in Place Seffarine, bastano due passi per arrivare al souk dei tintori: le matasse di seta appena uscite dalla tintura vengono appese ad asciugare al sole, e a seconda dei giorni lo spettacolo dei colori può variare dal rosso acceso al giallo squillante al verde bosco. Vicino al fiume e vicino ai confini della Medina si trova il più affascinante dei souk di Fès, quello dei conciatori: qui l’odore è penetrante e sgradevole, e lo spettacolo che si offre agli occhi di chi entra nella zona della tintura delle pelli è affascinante e ripugnante al tempo stesso. In un grande spiazzo si trovano delle vasche di pietra scavate nel terreno, ognuna riempita con liquidi diversi, nelle quali uomini vestiti con pantaloni corti e a torso nudo si immergono fino alla vita per lavorare le pelli. Queste vengono immerse in bagni con sostanze diverse, come calce, acqua ed escrementi di piccione per renderle morbide e trattabili, poi vengono colorate in altre vasche con tinture a base naturale, infine vengono stese al sole ad asciugare. Le sostanze usate hanno un odore penetrante e sgradevole, il terreno è sporco di tinture e scivoloso, ma il colpo d’occhio delle vasche di un bianco abbacinante riempite di colore e il lavoro degli artigiani è bellissimo. Il nostro giro nel souk di Fès sembra non finire mai, e naturalmente acquistiamo qualche oggetto di artigianato, dopo lunga contrattazione, seduti davanti ad un tè alla menta. La sera torniamo a dormire al nostro hotel-bordello di Meknes, e il giorno seguente partiamo presto, perché abbiamo parecchia strada da fare. Il nostro percorso ci porta a inerpicarci sui monti del Medio Atlante; oltrepassiamo alcun passi montani piuttosto alti, e su uno di questi, dove la strada si inoltra in mezzo a un fitto bosco, incontriamo un gruppo di scimmie, ferme tra gli alberi, sul terreno. La gente ferma le auto per guardarle e molti danno loro da mangiare, così esse, nonostante vivano allo stato brado, si sono abituate all’uomo tanto da lasciarsi avvicinare e quasi toccare.

Dopo aver fotografato le scimmie ripartiamo. Da Midelt in poi la vegetazione si fa più rara; dove prima c’erano boschi di cedri e conifere, si vedono solo distese di pietraie colo rosso ocra. Di tanto in tanto, ai margini delle strade, appaiono gli “ksour”, immensi e maestosi castelli di sabbia che sembrano materializzarsi dal nulla. Antiche costruzioni difensive, racchiudevano interi villaggi all’interno delle loro mura, spesso decorate con eleganti trafori che ne ingentiliscono l’aspetto minaccioso. Di “ksour” è pieno l’intero sud del Marocco; ce ne sono di grandissimi, capaci di ospitare centinaia di persone, e di piccoli, poco più che case private. Tutti, indistintamente, sono costruiti con fango e tronchi di palma sezionati inseriti nella struttura per darle un po’ più di robustezza. Il sole impietoso li cuoce fino a spaccarli, le piogge torrenziali, per fortuna piuttosto rare, li sciolgono come fossero veri castelli di sabbia. Passando per la strada che da Midelt conduce al deserto se ne vedono tanti in misere condizioni, mezzo sgretolati, abbandonati, silenziosi come regge da fiaba dalle quali siano fuggiti all’improvviso il re e la sua corte, cosa, peraltro, non lontana dalla realtà. Oggi sono quasi tutti disabitati, al massimo si trova qualche famiglia che divide le stanze con pecore e capre. Passiamo anche El Rachidia, un grosso paese costruito durante il protettorato francese, e più avanti il villaggio di Meski. Dopo Meski la strada si restringe e il vento sospinge la sabbia fino sulla carreggiata. Finalmente, nel tardo pomeriggio e piuttosto stanchi, arriviamo a Erfoud, la cosiddetta “porta del deserto”; ci fermiamo in un piccolo e modesto hotel alla fine del paese, scarichiamo la moto e ci prepariamo per la nostra prima esperienza nel Sahara. Per vedere le famose dune di Merzouga in estate è consigliabile andare all’alba o al tramonto, perché nelle altre ore della giornata il calore è veramente insopportabile. La cittadina è separata dalle dune da 30 chilometri di strada, di cui 15 asfaltati e 15 di pista. Enzo non si fida ad affrontare la pista perché teme che sia molto sabbiosa, e noi siamo in due sul Tenerè; quindi “ingaggiamo” un marocchino, che ci accompagna con uno scassatissimo Land Rover Defender. Scopriremo invece che la pista è tutta molto battuta, e ce l’avremmo fatta benissimo anche con la nostra moto. Verso la fine della pista si incontrano due o tre alberghi molto semplici, e dove la pista finisce completamente iniziano le dune, una distesa infinita di sabbia dorata che si perde all’orizzonte: è il deserto del Sahara. Da qui, prendiamo due dromedari e una guida, che ci accompagna in mezzo alle dune ed in cima ad esse, nel nulla assoluto: lo spettacolo è di una bellezza selvaggia e travolgente, e aspettiamo il tramonto del sole.

Il sole cala lentamente dietro alle dune lontane, purtroppo però c’è foschia, e le foto non riescono molto bene. Rientriamo coi dromedari verso il piccolo bar che si trova alla fine della pista, dove ci aspetta il nostro autista col suo Defender. Ci fermiamo a bere un tè alla menta; questa zona è ricchissima di minerali e di fossili, c’è un ragazzo che ne vende alcuni molto belli, e non resistiamo alla tentazione dell’acquisto. Ormai si è fatto buio, il nostro autista ci riaccompagna indietro: saliamo in camera, ci facciamo una bella doccia e ceniamo nel ristorante dell’albergo, dove siamo gli unici avventori. Il locale è molto bello, arredato in modo tipico: le pareti sono rivestite di piastrelle di ceramica finemente lavorate, con disegni astratti e floreali blu e verdi, ci sono tende ricamate alle finestre, i mobili e i tavoli sono in legno antico. Si mangia anche bene: “tajine” alle prugne e cous cous alle verdure. Il proprietario dell’albergo ci fa mettere la moto nella hall, non avendo un garage a disposizione. Teme che qualcuno possa rubarla; noi dubitiamo di ciò, perché la moto è vecchia e in questi paesi nessuno utilizza moto di grossa cilindrata ma solo motorini, quindi darebbe subito nell’occhio. Comunque è più al sicuro dentro, se non altro per il bauletto posteriore, che ci rincrescerebbe smontare e portare fino in camera. Dopo cena facciamo due passi per il paese. Vi sono alcuni negozietti di souvenir, uno proprio di fronte al nostro albergo; passiamo un paio d’ore a chiacchierare e bere tè con il ragazzino che lo gestisce, acquistiamo qualche amuleto beduino e finalmente andiamo a dormire.

La notte purtroppo il caldo arroventa la nostra stanza, posta in alto nella costruzione che ospita l’albergo. Nonostante diverse docce fredde, il calore mi impedisce di dormire: porto in terrazza una coperta grossa che trovo nell’armadio e mi ci sdraio sopra. È tutta un’altra cosa, c’è un po’ di brezza e la temperatura è nettamente migliore. Enzo inspiegabilmente riesce a dormire nonostante il terribile caldo della camera. La mattina seguente ripartiamo in direzione ovest, alla volta di Ouarzazate. La strada che va da Erfoud a Ouarzazate passa in mezzo ad una immensa landa deserta, fiancheggiata dalle montagne dell’Atlante su entrambi i lati; qua e là strani crateri spuntano dal terreno, alberi non se ne vedono, auto ben poche. Di tanto in tanto si presenta agli occhi lo spettacolo delle “kasbah” così numerose che è quasi impossibile perdersene una. Dopo aver attraversato paesi d’incredibile atmosfera, dove la vita scorre a ritmi antichissimi, le donne sono tutte velate di nero, dalla testa ai piedi, gli uomini viaggiano a piedi o a dorso di mulo, arriviamo al paese di Tinerhir, dal grandissimo palmeto e dal potente “ksar”; proseguiamo poi per le Gole del Todra, che si incontrano proseguendo sulla stessa strada: pareti di roccia altissime scendono a strapiombo, in fondo scorre tutto l’anno abbondante l’acqua del fiume Todra, l’aria è piacevolmente fresca. Arriviamo a Ouarzazate nel pomeriggio: questa non è una bella città, non ha il fascino delle città imperiali né l’atmosfera dei villaggi ai bordi delle “kasbah”, e non c’è molto da vedere qui: nonostante tutto vi sono alberghi di lusso, ristoranti e persino un villaggio del Club Mediterranée, perché Ouarzazate è un ideale punto di partenza per visitare il deserto (le dune di Zagora sono relativamente vicine), Marrakech, le “kasbah”, le gole, il mare. Troviamo posto all’Hotel La Gazelle, che ha anche un rinomato ristorante e una piscina. Scarichiamo i bagagli, ci sistemiamo e facciamo due passi in città. Dopo aver comprato alcuni souvenir, rientriamo in albergo per cena. L’indomani, con la moto scarica, visitiamo ciò che vi è di interessante nelle vicinanze. L’unico monumento di Ouarzazate è la Kasbah di Taourirt, un’antica dimora dei pashà di Marrakech; proseguiamo le visite con la kasbah di Tilmasma e quella di Tifoultoute, che si trovano sulla strada per Zagora. Quella di Tifoultoute è stata parzialmente restaurata, ne è stato ricavato un semplice ristorante e tre camere spartane; è in un luogo molto bello e in una posizione invidiabile, con le montagne dell’Atlante a perdita d’occhio. Sulle torri della kasbah hanno nidificato le cicogne, e al tramonto si può assistere ai loro voli. Andiamo a vedere anche l’oasi di Finnt, che si raggiunge imboccando la strada per Zagora, girando a destra per Tifoultoute e prendendo la pista a sinistra; dopo una quindicina di minuti di guida nello sterrato si arriva ad un paesino completamente isolato, dove le donne lavano i panni nel fiume, i bambini portano il pane a cuocere al forno comune, gli uomini lavorano i campi. Veniamo invitati dal capo del villaggio nel patio della sua casa, dove ci vengono offerti tè alla menta e frutta. L’ultima visita di oggi è la splendida kasbah di Aït Bennadou, vecchio villaggio fortificato costruito su una collina, talmente bella da essere stata scelta da molti registi come set di film famosissimi: Lawrence d’Arabia, Il Gladiatore, Gesù di Nazareth, tanto per citarne alcuni. Un bambino che sembra comparso dal nulla si offre di farci da guida, in cambio di una piccola mancia, e ci porta a visitare la grande kasbah deserta e solitaria. Dall’alto delle torri si gode un bellissimo panorama di tutta la vallata. Il giorno appresso è dedicato al viaggio lungo la pittoresca valle del Draa, fino al villaggio di Zagora. Dopo aver attraversato una catena montuosa, si scende nella valle del fiume Draa; la strada costeggia il fiume, lungo il quale si susseguono palmeti e kasbeh, fino a Zagora, passando per il villaggio di Amazraou, sviluppato intorno ad una kasbah, dove oggi è giorno di mercato. Zagora è in realtà un villaggio come tanti; la cosa più interessante forse è il cartello che dice “Timbouctou 52 jours”, indicando che da quel punto ci volevano 52 giorni di cammello alle carovane del deserto per raggiungere la città africana. Oggi è un caldo davvero infernale; sulla strada del ritorno verso Ouarzazate ci coglie una imprevedibile pioggia; il calore è tale che le gocce d’acqua non fanno in tempo a toccare terra che sono già evaporate. Il giorno seguente si riparte, ancora in direzione ovest, verso Marrakech. Attraversiamo le montagne dell’Alto Atlante; tra foreste di cedri altissimi e profumati, alberi da sughero e tratti desertici, oltrepassiamo passi oltre i 2000 metri. Lungo la strada incontriamo uomini e ragazzi che vendono minerali: anche se non siamo intenditori, ci sembrano molto belli, e ne acquistiamo alcuni. Nel pomeriggio arriviamo a Marrakech; grazie alla solita guida Lonely Planet troviamo un buon albergo, l’Hotel de La Ménara, 3 stelle, non troppo costoso ma elegante e con aria condizionata, vicino al centro della città. Ci riposiamo un’oretta al fresco, prima di uscire nella calura pomeridiana. Marrakech è probabilmente la più famosa città del Marocco, ed occupa una posizione invidiabile: non troppo distante dalle brezze dell’Atlantico, vicina al deserto quel tanto che basta per renderla punto d’arrivo delle carovane che trasportavano le merci, Marrakech può usufruire dell’abbondanza d’acqua che le deriva dalla presenza di fiumi e torrenti che scendono dall’Atlante. Anche questa, come le altre città del Marocco, è divisa in due parti: la Medina con i souk e i palazzi dei sultani, e il Gueliz, la città nuova costruita dai francesi. Andiamo a piedi a visitare la famosa piazza Jemaa el Fna, il cuore della città che batte ininterrottamente dalle prime ore dell’alba a notte fonda, lo spettacolo a cielo aperto che non smette mai di incantare turisti e marocchini. Qui anticamente venivano compiute le esecuzioni capitali ed esposte al pubblico le teste tagliate, infatti il nome significa “adunanza dei morti”; la piazza in sé non è particolarmente bella, non ci sono intorno edifici maestosi né sfondi particolari, è però l’atmosfera a rendere unica Jemaa el Fna che, a seconda delle ore del giorno, cambia scenario e personaggi. All’alba arrivano i primi ambulanti che montano le loro bancarelle formando una corona tutto intorno alla piazza, poi, a poco a poco, è il turno di vari venditori che espongono un misto di merci orientali e paccottiglia americana: spezie, erbe medicinali, scarpe usate, oggetti di legno, monili d’argento e bigiotteria, cesti di paglia e secchi di plastica, magliette e djellaba candide. Poi ci sono i lustrascarpe con tanto di ombrello per ripararsi dal sole, il cavadenti che espone su un tavolino i molari appena tolti, gli stregoni che tolgono e mettono il malocchio, i venditori d’acqua con i grossi otri sulla schiena, che per farsi fotografare con i loro pittoreschi costumi chiedono una piccola mancia. Ci sono anche scrivani al servizio degli analfabeti, ballerini, cantastorie e incantatori di serpenti. Lo spettacolo della piazza continua tutto il giorno, e quando calano le prime ombre della sera arrivano i venditori di cibo che montano i loro ristoranti ambulanti: è anche l’ora delle indovine che prevedono il futuro e dei ragazzi che offrono hashish di nascosto. Dopo esserci mischiati tra la gente, per assaporare questa atmosfera irripetibile, andiamo a goderci una vista d’insieme dall’alto della terrazza di uno dei bar che circondano la piazza. Dopo aver bevuto svariati tè alla menta, iniziamo la visita del souk; ci sono molte persone che si offrono come guide, è veramente difficile scoraggiare le loro insistenza. Iniziamo dal souk Semmarine, dove si possono trovare sete, broccati, ma anche stoffe sintetiche, caffettani e qualche negozio di oggetti di antiquariato di un certo valore, mischiati tra i venditori delle classiche “marocchinerie”, come borse e oggetti di cuoio decorati in oro. Poi si incontra il souk Attarine, dedicato agli artigiani del rame: pentole, teiere, piatti da tajine e vassoi luccicano nell’oscurità delle botteghe. Poco distante si entra nel souk delle “babouches”, considerato uno dei più grandi del Marocco. Siamo vicini alla Rahba Redima, la piazza nella quale un tempo venivano venduti gli schiavi cristiani, che oggi ospita il mercato degli ortaggi e del pollame vivo, mentre tutto intorno si trovano botteghe di spezie. Entriamo in uno di essi, e acquistiamo zafferano, pepe nero, verde, rosso e bianco, peperoncino, paprika, incensi di vario tipo. I venditori di Marrakech sono noti per essere i più insistenti e impazienti di tutto il Marocco, come constatiamo con i nostri occhi. Ci fermiamo ad acquistare alcuni oggetti in ceramica in un negozio, e dobbiamo discutere accanitamente per riuscire a contrattare il prezzo dei nostri acquisti. Allontanandoci dai souk, andiamo a vedere la Koutoubia, il monumento che domina la città, rosata moschea affiancata da uno splendido minareto, simbolo di Marrakech. Si trova nella parte sud della Medina, poco distante dalla piazza Jemaa el Fna; quando venne eretta, nel 1147, gli architetti si accorsero che non era orientata esattamente verso la Mecca, come avrebbe dovuto essere, così la rifecero da capo, nel 1158. Quella che oggi si può ammirare è il progetto finale a 17 navate, ed ha una grandiosità paragonabile solamente alle moschee di Cordoba e Damasco. Quanto  al minareto, è alto 70 metri e largo 12, e svetta sopra ai tetti della città. Prima di rientrare in albergo andiamo con una carrozzella a visitare i giardini della Ménara, una enorme estensione di verde con in mezzo una vasca e un padiglione in stile arabo. Ceniamo in albergo e andiamo a dormire. Il mattino seguente partiamo per arrivare al mare, e precisamente a Essaouira, sull’oceano Atlantico. Arrivando sulla costa, dal deserto, si sente il netto cambio di temperatura; lasciamo il clima arroventato dell’interno per tornare alle temperature fresche e ventilate dell’oceano. Essaouira è una delle più pittoresche cittadine del Marocco e sicuramente la più affascinante della costa atlantica. A prima vista ci si rende subito conto di quanto sia diversa dalle città dell’interno; le sue case bianchissime, con porte e finestre dipinte di turchese e ornate di vasi di fiori, i bastioni affacciati sul mare, la spiaggia immensa, il profumo di legno di cedro che si respira nelle stradine dell’interno, ne fanno un luogo speciale. La parte più interessante è la città vecchia, circondata da mura color ocra rosato, che sorge su una penisola affacciata sull’Atlantico: le strade si intersecano a reticolo, rendendo facile l’orientamento nella Medina, e c’è un mercato molto pittoresco, che la mattina e la sera si affolla di donne che vanno a comprare frutta, verdura e polli vivi, avvolte dalla testa ai piedi nell’”haik” bianco, che lascia intravedere solo un occhio. Il souk del pesce è uno degli angoli più belli, da vedere al mattino, quando il bottino della notte precedente è esposto sui banconi e stormi di gabbiani volano rasente al pesce esposto; tutto intorno si trovano le botteghe delle spezie, meravigliosamente colorate, nelle quali si può fare scorta di aromi per cucinare, di hennè e di erbe medicinali. C’è anche una zona dedicata ai gioiellieri, e alcune gallerie d’arte, rimaste dai tempi in cui a Essaouira passavano artisti di ogni nazionalità. La “Sqala”, la fortificazione costruita dai portoghesi, si trova ai margini della città vecchia, con uno dei lati affacciati sull’oceano e protetto da cannoni. È il luogo ideale per le passeggiate serali, con il vento che muove i profumi e lo spettacolo delle isole Purpuraires di fronte. Alla base della fortezza, costruita su una piattaforma sopraelevata, si trovano le botteghe degli intagliatori del legno, sistemate in quelli che un tempo erano i magazzini delle munizioni. Il porto si trova sulla punta estrema della penisola; è animatissimo tutto il giorno, grazie ai ristorantini improvvisati con tavoli e panche di legno al riparo degli ombrelloni, gestiti dagli stessi pescatori che vendono e cucinano al momento quello che hanno pescato la notte stessa. L’ambiente è estremamente semplice, ma i mucchi di aragoste, granchi, dorados e calamari sono estremamente invitanti. Si può anche trattare il prezzo, che comunque è sempre conveniente. Quanto alla spiaggia, quella davanti alla città è piuttosto affollata, almeno nei giorni in cui il vento consente di frequentarla; deserta invece, e bellissima, la spiaggia di dune un paio di chilometri fuori Essaouira in direzione Agadir. Essaouira è frequentatissima dai surfisti, grazie al vento forte che qui spira quasi ogni giorno; a causa del vento, la sera la temperatura cala parecchio, e per uscire dobbiamo indossare le giacche da moto per ripararci dal freddo. È paradossale come la sera precedente non riuscissimo a dormire a causa del caldo, mentre questa sera bisogna mettere un panno nel letto. Ci siamo sistemati all’Hotel des Iles, 4 stelle sul lungomare, piuttosto elegante ma non troppo costoso. Abbiamo una camera al piano terreno che dà sulla piscina dell’hotel. Ceniamo in un ristorante sul molo, che mi era stato indicato da un amico marocchino in Italia. Il ristorante, “Chez Sam”, è in effetti molto rinomato a Essaouira; l’ambiente è tipico, si mangia dell’ottimo pesce e la spesa è più che ragionevole. Ci abbuffiamo con zuppa di pesce e un piatto gigantesco di gamberetti. Il giorno seguente al nostro arrivo è dedicato interamente alla visita della città e agli acquisti nel souk. Essaouira è nota per la lavorazione del legno d’ulivo. Con questo legno vengono realizzati gli oggetti più belli e disparati, dai tavolini, ai soprammobili, alle scatole, ai giocattoli, agli orologi. Acquistiamo scatole di varie dimensioni, soprammobili, un orologio dal quadrante triangolare fatto interamente in legno, a parte gli ingranaggi. Acquistiamo anche diverse paia di sandali in cuoio naturale, fatti a mano anch’essi. Il giorno seguente ci spostiamo verso nord, a Rabat, la capitale. Qui ci aspettano alcuni amici marocchini che vivono in Italia e sono in vacanza dalla famiglia: sono marito e moglie e  si chiamano Mustafà e Kadija, ci ospiteranno a casa dei genitori di Kadija per i giorni della nostra permanenza a Rabat. I nostri amici abitano in un quartiere popolare e tipico di questa città: sistemiamo la moto nel piccolo laboratorio del fratello di Kadija, che è un artigiano e lavora il legno, mentre per dormire ci offrono la loro camera una altro fratello di Kadija e la moglie, che per l’occasione dormiranno sui divani che, come in tutte le abitazioni tipiche marocchine, corrono lungo tutte le pareti della stanza principale della casa e vengono utilizzati normalmente anche come letti. Dopo esserci sistemati facciamo un primo giro per Rabat, utilizzando taxi e autobus e facendoci guidare da Mustafà. Rabat ha l’aspetto di una città europea, con ampie zone residenziali, larghi viali fiancheggiati da palme e alberi fioriti, qualche palazzo anni venti, eredità dell’epoca in cui i francesi decisero di stabilirvi la capitale del protettorato. Le origini di questa città sono molto antiche, risalgono al VII° secolo a.C. Fu proprietà dei Cartaginesi poi dei Romani. Nel X° secolo una guarnigione di soldati islamici fondò la città di Salè sulla riva destra del fiume Bou Regreg e una fortezza, chiamata Ribat, su quella sinistra; nel XII° secolo la fortezza venne trasformata e chiamata “Ribat al Fath” (campo della vittoria), ma solo nel 1600 assunse una certa importanza, quando venne popolata da musulmani scacciati dalla Spagna e da rinnegati e pirati, che ben presto presero il nome di “Corsari di Salè” e che spadroneggiarono i mari circostanti per lungo tempo. La prima cosa che vediamo a Rabat è la Torre Hassan, sulla collina vicino al mare che sovrasta l’estuario del fiume Bou Regreg: doveva essere il minareto della più grande moschea dell’occidente, la seconda dell’Islam dopo quella della Mecca. La moschea, di dimensioni gigantesche, avrebbe dovuto contenere 312 colonne e 42 pilastri di marmo, ma dopo la morte del suo costruttore non fu mai portata a compimento; oggi si possono vedere solo gli spezzoni delle colonne, e sullo sfondo, la Torre Hassan, alta 44 metri (ma avrebbe dovuto misurarne 80). Vicino alla torre visitiamo il moderno Mausoleo dove riposano le spoglie del re Mohammed V° e del suo figlio minore. L’interno è riccamente decorato in stile tradizionale marocchino: il sepolcro del sovrano è in onice bianco e si trova sotto una cupola intagliata in legno di mogano e cedro del Libano rivestita da una sottile lamina d’oro. Sotto il Mausoleo si trovano una moschea e una biblioteca. Dalla Torre Hassan, costeggiando il Bou Regreg in direzione del mare, si arriva alla Casbah degli Oudaia, costruita intorno al X° secolo nel luogo dove si trovava l’originaria Ribat: tutta la Casbah è circondata da bastioni, rinforzati e dotati di cannoni, affacciata sul mare, per difendersi dagli attacchi dei pirati. All’interno, stradine a saliscendi e abitazioni suggestive dai muri imbiancati a calce, e un bellissimo giardino Andaluso che ospita il Museo delle Arti Marocchine. Ci fermiamo con Mustafà e Kadija a bere un tè alla menta al Cafè Maure, dal cui terrazzo decorato con piastrelle colorate si gode una vista impareggiabile sull’estuario. La Kasbah degli Oudaia confina con la parte nord occidentale della Medina; entriamo nella Medina che pullula di mercanti di lana e coperte, e nella parte alta della strada si trovano due “foundouk”, locande con stalle per i mercanti di passaggio, oggi adibite a laboratori per la conciatura delle pelli. Nella parte centrale i mercanti sono raggruppati a seconda della natura dei loro prodotti. Facciamo un giro rapido, riservandoci per l’ultimo giorno della nostra permanenza qui gli acquisti. Andiamo poi a visitare la Grande Moschea As Sounna, il Palazzo del Parlamento e la Bab er Rouah (porta dei venti), e in seguito il Palazzo Reale, del quale è possibile visitare solo il “mechouar”, l’area all’aperto che lo circonda. Il Museo Archeologico, vicinissimo al Palazzo Reale, che conserva importanti reperti provenienti da Volubilis, quest’oggi è purtroppo chiuso. Oltre la zona del Palazzo Reale, al di fuori delle mura della città in direzione ovest, sorgono le rovine di Chellah, antico porto dei Fenici e dei Cartaginesi, conosciuta come Sala Colonia al tempo dei romani, e la necropoli araba. Oltrepassata la Bab Zaer, si arriva alle rovine ricoperte di vegetazione, dove si trovano i resti della moschea merinide; a sinistra della moschea si trovano i ruderi dello “zaouia”, luogo destinato al ritiro religioso, e all’esterno l’antico “hammam”, il bagno turco, del quale resta una vasca nella quale nuotano anguille giganti che, secondo la leggenda, hanno il potere di curare la sterilità femminile. Passiamo il fiume Bou Regreg sul ponte Hassan II°, e arriviamo alla città gemella di Salè, considerata un sobborgo di Rabat; all’interno delle sue mura c’è una piccola Medina, dove visitiamo il Souk Sidi Marzouk, con botteghe di ricami, stoffe e bigiotteria, la kissaria dei panierai e il foundouk Askour, un ospedale costruito al tempo dei merinidi. È già tardo pomeriggio  quando rientriamo a casa dei genitori di Kadija: dopo la doccia saliamo tutti sul terrazzo che si trova sul tetto della casa per far venire l’ora di cena. I pasti si consumano ad orari molto diversi dai nostri in questo paese: come ho già detto in precedenza, la gente si alza tardi, fa colazione alle 11.00 di mattina, pranza alle 16.00 di pomeriggio e cena non prima di mezzanotte. Non capiamo se questo sfasamento di orari è dovuto al periodo di vacanza o se è applicato per tutto l’anno. Comunque sia, ci adeguiamo agli orari dei nostri ospiti. Ceniamo verso la mezzanotte, poi rimaniamo fino alle prime ore del mattino ad ascoltare musica etnica e a bere l’immancabile tè alla menta. Il tè alla menta per i marocchini rappresenta un vero e proprio rito: viene riempita una bellissima teiera argentata di acqua bollente, poi viene aggiunto un cucchiaio di foglie di tè verde e qualche foglia di menta fresca, e il tutto viene lasciato in infusione diversi minuti. Viene poi messo lo zucchero, in grossi blocchi, poi si aspetta che esso si sciolga mentre tè e foglie di menta sono ancora in infusione. Quando il tutto sembra pronto, il capofamiglia procede a versare la bevanda nel suo bicchiere, alzando la teiera in modo tale che il getto di tè cada dall’alto. Lo assaggia e se lo ritiene non buono aggiunge altro tè, zucchero o menta; solo quando il sapore è di suo gradimento viene servito a tutti i familiari e agli ospiti. Al souk di Rabat compreremo anche noi un servizio da tè marocchino, che finirà caricato nella borsa del serbatoio: teiera e vassoio d’argento e sei bicchieri in vetro verde con ricami in oro. Il giorno successivo è dedicato alla visita di Casablanca, dove arriviamo in treno insieme ai nostri amici Kadija e Mustafà. Casablanca anticamente fu un covo di pirati, in seguito venne distrutta dal terremoto che rase al suolo Lisbona e ricostruita dal sultano Sidi Mohammed ben Abdallah col nome di Dar el Beida, che significa “casa bianca”. Mercanti spagnoli vi si installarono e cambiarono il nome alla città da Dar el Beida in Casablanca. Facciamo un giro nel labirinto di stradine dell’antica Medina, ma qui manca il fascino delle medine visitate nelle altre città; nelle vicinanze c’è la Sqala, la fortezza prospiciente il mare dalla quale si vede il porto. Molto più affascinante della vecchia Medina è la nuova Medina, chiamata anche “quartiere degli Habbous”: qui c’è un’atmosfera del tutto particolare, con le case bianche profilate in pietra color ocra, piccole piazze con aiuole verdi e panchine in pietra, botteghe di artigiani, il tutto realizzato in stile moresco. A pochi passi dalla Medina Habbous c’è il Palais Royal: non si può visitare, come del resto tutti gli altri palazzi che il re si è fatto costruire in tutte le città del Marocco. La visita più interessante però è quella della grandiosa moschea di Hassan II°, inaugurata nell’agosto del 1993; è un inno all’opulenza e all’esagerazione, può contenere 25 mila fedeli, il minareto è alto 200 metri e due ascensori portano il muezzin fino in cima. Al culmine un raggio laser illumina le tenebre fino a 35 chilometri di distanza in direzione della Mecca; per costruirla sono state usate 25 mila tonnellate di travertino e 35 mila persone vi hanno lavorato giorno e notte. La sala delle preghiere, dalla quale pendono 50 lampadari di Murano del peso di 1200 chilogrammi l’uno, è completamente scoperchiabile in pochi secondi. La moschea, in rispetto a quanto scritto nel Corano, dove si dice che il trono di Allah è costruito sull’acqua, pesca nell’oceano grazie a enormi palafitte di cemento ed è protetta dalla furia delle onde grazie ad un enorme pettine frangiflutti; il costo di questa faraonica costruzione è proporzionale alla sua grandiosità: 800 miliardi di vecchie lire sono stati raccolti in modo più o meno ortodosso dal re Hassan II° tra i cittadini, non sempre in grado di pagarsi un paradiso tanto caro. Vicino alla moschea si trovano la piscina Eden Rock, una delle più grandi del mondo con le sue quattro vasche vicinissime all’oceano e l’Acquario, con una grandissima raccolta di pesci di tutte le specie. Prima di partire da Casablanca passiamo a salutare il fratello di Mustafà, che vive qui e lavora in un cinema come operatore. Abita in un quartiere poverissimo, col magro stipendio riesce a malapena a pagare l’affitto del tugurio dove vive, un sottoscala senza bagno, senza cucina e senza finestre, e a comprare il cibo per la moglie e i figli piccoli. Nonostante la grande povertà, queste persone sono molto gentili ed ospitali, non esitano a dividere con gli ospiti il poco che hanno: ci offrono biscotti e tè alla menta, che scaldano su un fornellino da campeggio seduti in terra, non avendo a disposizione un vero fornello a cucina. Torniamo a Rabat, sempre col treno. La sera, dopo aver cenato con i nostri amici e la loro famiglia, dalla finestra aperta sentiamo musica e canti venire dall’esterno. Si tratta di un corteo nuziale, gli sposi sono due giovani che abitano nel quartiere, e la festa di nozze inizia per strada; accompagnata da squilli di tromba arriva la sposa, trasportata su di una portantina ornata da un prezioso baldacchino: sembra una regina dell'antichità, abbigliata in uno sfarzoso vestito verde smeraldo tempestato di paillettes e brillantini, truccatissima e con mani e piedi completamente ricoperti da tatuaggi di henné. La portantina è seguita da un corteo di persone in festa, e il gruppo si dirige alla casa della sposa dove si svolgerà la festa. Io e Enzo scendiamo in strada per vedere il corteo, e veniamo invitati anche noi a partecipare ai festeggiamenti. I nostri amici marocchini ci invitano ad andare e ci spiegano come si svolge un matrimonio in Marocco: non c’è nessuna cerimonia religiosa, il matrimonio è un atto esclusivamente civile; dopo l’espletamento delle pratiche, si organizza una grande festa a casa della sposa o dello sposo, con un ricco buffet e musicisti che suonano in continuazione. La festa durerà tutta la notte, finché gli invitati ce la fanno a ballare; le donne ballano in gruppi solo femminili, mentre gli uomini ballano in gruppi maschili, e i due gruppi non si mischiano mai. Nel corso della serata è previsto che la sposa cambi sette vestiti, tutti riccamente decorati, ognuno di un colore diverso: bianco, verde, giallo, rosso, blu, marrone e nero, ed ogni colore ha un significato preciso. È tradizione anche che la sposa abbia mani e piedi accuratamente tatuati. Enzo va alla festa, io invece, che non ho voglia di fare tardi e tanto meno di stare in mezzo alla confusione, rimango in camera a leggere il libro che mi sono portata in viaggio, l’Iliade. Enzo rientra verso le 3 di notte, mentre la festa è ancora nel pieno svolgimento. Il giorno dopo è l’ultimo della nostra permanenza in Marocco, e lo dedichiamo agli ultimi acquisti al souk; come ho detto in precedenza, compriamo un servizio da tè, caricando la teiera  e i bicchieri nella borsa da serbatoio del Tenerè e il vassoio infilato nel ragno sopra al bauletto posteriore, poi compriamo alcuni gioielli etnici in argento, per me e per fare regali, e ancora oggetti in ceramica, un vestito tradizionale femminile, datteri e spezie, indaco per colorare i tessuti, due “tagine” decorative (esistono le “tagine” per cuocere, che sopportano il calore dei fornelli, e quelle decorative, da usare solo come soprammobili) in ceramica dipinta a mano di tenui colori blu e azzurri. La sera, visto che mi piacevano molto i tatuaggi fatti con l’hennè che le donne marocchine usano largamente, i nostri amici fanno venire a casa loro una ragazza che realizza questi tatuaggi: mi faccio fare complicati disegni sulle mani, dorso e palmi, e sui piedi fino alle caviglie. Per terminare la serata, i nostri amici ci vestono con abiti tradizionali marocchini e ci facciamo un bel po’ di foto tutti insieme. La mattina seguente, a malincuore, carichiamo le valige e tutta la paccottiglia acquistata nei vari souk sul Tenerè, che come al solito, alla fine della vacanza assomiglia di più a un mulo da soma che a una moto, e salutiamo i nostri amici. Ci mettiamo in strada in direzione di Kenitra, e poi di Tétouan. Da qui raggiungiamo Ceuta, città spagnola in territorio africano. Il passaggio della frontiera è snervante, file interminabili di veicoli e persone attendono i loro turno per poter espletare le pratiche per l’uscita dal paese. Finalmente tocca a noi, e riusciamo ad attraversare la frontiera. Entrare a Ceuta è traumatico, sembra di essere capitati in un altro mondo: la gente veste all’europea, le strade sono ordinate e pulite, le auto sono lucide e nuove e non catorci semidistrutti come vedevamo in circolazione fino a pochi minuti fa, i semafori vengono rispettati e i clacson tacciono. Inoltre, i ragazzini viaggiano in scooter e non a dorso di asinello, e non si incontrano incantatori di serpenti o venditori di tappeti. A dispetto di questa impressione di ordine e “normalità”, sentiamo già una grossa nostalgia per il mondo chiassoso e variopinto che abbiamo appena lasciato. Ci imbarchiamo sul traghetto che in un’ora ci scarica nuovamente ad Algeciras, sulla costa della Spagna. Partiamo in direzione est, ma ormai fa già buio, quindi decidiamo di fermarci per dormire a San Roque. I dintorni di questo paese hanno un aspetto leggermente desolato; cerchiamo invano un campeggio, e quando stiamo per scoraggiarci ne troviamo uno, un po’ squallido ma accettabile per passarvi solo una notte. Scaricata la moto, andiamo in cerca di un ristorante. Anche la ricerca del ristorante risulta penosa con la precedente. Ormai sono le 23.00, e in questo paese, seppur grazioso, non c’è più nessuno in giro, tanto meno locali aperti. Con la moto usciamo dal paese, affamati e stanchi. Fortunatamente, dopo parecchio girovagare troviamo una specie di fast food ancora aperto, dove riusciamo a riempire gli stomaci vuoti. Il giorno seguente, fermandoci solo per pranzare, viaggiamo fino a sera e arriviamo ad Alicante, dove troviamo il campeggio Bon Sol, e ci fermiamo a dormire qui. Questa città è sicuramente più turistica della precedente, ma almeno trovare una sistemazione per la notte e per la cena non sarà più così problematico. Il mattino seguente ripartiamo, sempre in direzione est. La sera ci fermiamo a El Vendrel, vicino a Tarragona. Troviamo subito un bel campeggio, sul  mare, il camping Sant Salvador, molto attrezzato ma anche molto affollato: però la sera possiamo gustare un’ottima cena a base di pesce in uno dei tanti ristoranti sulla spiaggia. Il tramonto è bellissimo: il cielo è blu cobalto, tutto striato di nubi rosso fuoco e rosa. Il giorno seguente, prima di arrivare al confine con la Francia, evitiamo per un pelo un incidente: sull’autostrada due auto proprio davanti a noi si scontrano durante un sorpasso: una delle due ha un carrello carico di bagagli, il carrello è colpito in pieno e inizia a roteare sull’asfalto spargendo il suo contenuto ovunque. Enzo inchioda il Tenerè, io quasi gli cado addosso, ma riusciamo a schivare il carrello che volteggia e che sta per colpirci. Ci fermiamo in una vicina stazione di servizio e cerchiamo di spiegare ai presenti dell’incidente: alcune persone escono a vedere, poi telefonano alla polizia e alle ambulanze, anche se non sembrano esserci feriti gravi, solo qualche contuso. Ci fermiamo un po’ per accertarci che non ci sia bisogno del nostro aiuto, poi proseguiamo la nostra corsa verso l’Italia; passiamo il confine e la sera ci fermiamo a dormire a Toulone, in Francia. Il mattino dopo, prima di ripartire, compriamo alcuni souvenir francesi in un negozietto vicino al campeggio, come se non ne avessimo già abbastanza. Più tardi passiamo il confine con l’Italia, e la moto corre lungo l’autostrada che ci sta portando a casa. Siamo stanchi e anche depressi, come alla fine di ogni vacanza; dopo chilometri di autostrade che sembrano interminabili, finalmente scorgiamo la sagoma familiare della Basilica di san Luca, sui colli di Bologna. Siamo arrivati, il Marocco adesso sembra lontanissimo e il nostro viaggio solo sognato.

 

Aspetti positivi del viaggio, secondo noi:

         -        i bellissimi panorami naturali dei monti e del deserto

         -        il patrimonio storico, artistico e culturale, il primo incontro con il Sahara  

         -        scoprire un mondo molto diverso da quello che conosciamo, e cioè l’approccio verso la cultura musulmana

         -        il costo della vita molto basso, rispetto ai nostri standard

Aspetti negativi del viaggio, secondo noi:

         -        i marocchini spesso possono risultare invadenti e fastidiosi, perché cercano di venderti qualcosa o accompagnarti da qualche parte in cambio di una mancia                                 

         -        in luglio/agosto fa veramente troppo caldo nell’interno e soprattutto nel deserto, anche se sulla costa atlantica il clima è fresco e ventilato; sarebbe preferibile visitare questo paese in primavera o autunno

Preparazione moto: Yamaha Tenerè XT600

         -        irrigidito e alzato la sospensione

         -        montato camere d’aria da fuoristrada

Ricambi portati: Yamaha Tenerè XT600

         -        candele

         -        camere d’aria

         -        filo frizione

         -        una bottiglietta d’olio

         -        kit antiforature

Inconvenienti occorsi: investiti da camper in retromarcia ad un casello autostradale francese, nessun danno a moto o passeggeri, solo qualche graffio su una valigia (lato sinistro)

Qualche informazione pratica: i distributori di benzina si trovano con frequenza, ogni 20, massimo 40 chilometri; cartelli di indicazione di strade e paesi sono frequenti e scritti anche in inglese. In ogni caso, se avevamo dubbi abbiamo sempre trovato persone gentilissime pronte a darci indicazioni o ad accompagnarci sui luoghi durante gli spostamenti, per mangiare ci siamo, come sempre del resto, fermati nelle taverne frequentate da camionisti, dove in genere si mangia bene: dove vedevamo molti camion parcheggiati significava che la cucina era buona

Guida utilizzata EDT - LONELY PLANET – MAROCCO

Chilometri totali percorsi: 7.900 Giorni impiegati 25