LA MIA AFRICA

TUNISIA 1999

 

Estate ’99. La vicina Tunisia sarà la nostra meta quest’anno.

Ci imbarchiamo a Genova; la nave parte nel pomeriggio, e quando arriviamo al porto lo troviamo già gremito di auto tunisine che aspettano l’imbarco, cariche all’inverosimile degli oggetti più disparati. Sui portapacchi hanno caricato materassi, lavandini, tazze del water, bidet, vasche da bagno, divani e poltrone, mentre all’interno delle auto ci sono pacchi e fagotti di ogni tipo, che debordano addirittura dai finestrini: non abbiamo mai visto niente di simile!

Enzo si mette pazientemente in fila dietro a qualche centinaio di tunisini urlanti, per poter arrivare agli sportelli del check-in biglietti e controllo documenti. Dopo qualche ora di attesa, riesce a completare le pratiche necessarie all’imbarco.

Dopo un’attesa che pare interminabile, riusciamo a salire sulla nave, bella e nuova, che è della compagnia francese SNCM Ferryterranee. Abbiamo preso una cabina; la traversata dura circa 20 ore, e passiamo il tempo passeggiando per la nave. Poi viene l’ora di cena, e andiamo a mangiare al self service, molto rifornito. Dopo una bella dormita, il giorno seguente siamo pronti a sbarcare. La nave arriva nel pomeriggio al porto di Tunisi, ma anche qui perdiamo tanto tempo in formalità di frontiera. È ormai buio quando ci mettiamo in strada. Ci fermiamo al primo distributore per fare il pieno; paghiamo il benzinaio, il quale dimentica di darci il resto. Sarà il primo di una lunga serie, e dopo capiremo che queste dimenticanze non sono dovute a distrazione ma a disonestà; approfittando della ovvia difficoltà degli stranieri appena arrivati con la moneta locale, moltissimi venditori provano di non dare il resto della cifra spesa, sperando che il turista ingenuo non se ne accorga.

Visto che è già tardi cerchiamo un albergo nelle vicinanze di Tunisi. Non troviamo posto negli hotel economici, e l’ora si fa sempre più tarda. Dal momento che non vorremmo dormire in un’aiuola ci fermiamo all’Hotel Amilcar, anche se sembra piuttosto lussuoso: hanno una camera libera, e smontiamo le valige dalla moto. Contrariamente all’aspetto esterno e alla hall, la camera è squallida e sporca, e quando scendiamo per cenare il ristorante self service ha già chiuso; riusciamo a mangiare un po’ di cous cous avanzato, e andiamo a dormire. Quando, il mattino dopo, ci prepariamo a ripartire e paghiamo, il conto è anche salato.

Il nostro approccio con la Tunisia non sta iniziando nella maniera migliore.

Andiamo a visitare il paesino di Sidi Bou Said, piccolo villaggio con le piccole case imbiancate situato su un alto dirupo che si affaccia sul Mediterraneo, subito a nord di Tunisi. Il cuore del villaggio è una piccola piazza acciottolata, con i suoi caffè all’aperto e bancarelle che vendono dolci; a parte questo, e qualche negozietto di souvenir piuttosto turistico, non c’è molto altro da vedere qui.

Ci mettiamo in strada in direzione sud, verso Kairouan, dove intendiamo pernottare; mentre sulla costa la temperatura, anche se sfiorava i 40 gradi, era accettabile perché ventilata, spostandosi verso l’interno diventa un autentico inferno, con punte di 53/54 gradi, misurati dal termometro che portiamo sempre nella borsa del serbatoio. In moto l’aria che ti arriva sul viso è talmente calda da costringerti a viaggiare col casco chiuso e una bandana che copra la bocca, per non bruciarsi, e per lo stesso motivo conviene indossare la giacca da moto e i guanti.

Ci fermiamo a visitare Thuburbo Majus, antica città provinciale romana che si trova a cinquantacinque chilometri a sud ovest di Tunisi. È rimasto il Foro, fulcro della vita pubblica della città nell’antichità, poi il Campidoglio, posto sul lato nord occidentale del foro e realizzato su una piattaforma artificiale sollevata di un paio di metri rispetto al livello del Foro, dedicato agli imperatori Marco Aurelio e Commodo e alla trinità di Giove, Giunone, Minerva. E ancora il tempio di Mercurio, situato sul lato sud occidentale del Foro a ridosso del mercato, il Portico dei Petronii, che deve il suo nome alla famiglia di Petronius Felix che finanziò la costruzione del complesso del Ginnasio, realizzato in marmo nero, e le Terme, costituite da due stabilimenti, le Terme d’Estate e le Terme d’Inverno, ricche di bellissimi mosaici ora esposti al Museo del Bardo a Tunisi.

Ripartiamo, e arriviamo a Kairouan nel tardo pomeriggio, dove troviamo l’hotel che la nostra guida Lonely Planet ci indica come conveniente per rapporto qualità-prezzo, ovvero l’Hotel Sabra. In effetti è in un’ottima posizione, in centro, proprio di fronte all’ingresso della Medina. Non hanno garage, e il Tenerè viene messo in uno sgabuzzino per accedere al quale dobbiamo fagli fare diversi gradini. La stanza dell’albergo però è veramente spartana, non c’è il bagno ma solo un lavandino attaccato al muro in modo precario e pericolante, i mobili sono costituiti da una sedia rotta e un armadio semidistrutto e senza sportelli. I bagni, anch’essi fatiscenti, sono nel corridoio.

Unico aspetto positivo, la vista dall’alto sulla Medina, dalla finestra della nostra camera.

Ceniamo in un ristorantino vicino all’albergo, e dopo cena andiamo a comprare dolcetti in una pasticceria e bere un tè alla menta in un bar che ha i tavolini sulla strada. Il caldo è ancora insopportabile, nonostante siano già le 23.00. Andiamo a dormire, o almeno così speriamo. Dopo poco, inizia una violenta tempesta di sabbia; le raffiche di vento spostano vorticosi mulinelli di sabbia sulla città, tanto da rendere impossibile dalla nostra finestra vedere le mura della Medina, che distano non più di una cinquantina di metri. Passata la tempesta, il caldo sembra peggiorare. Passiamo quasi tutta la notte in bianco, a causa della enorme calura; risulta inutile anche bagnare i lenzuoli con l’acqua del rubinetto, dopo pochi minuti sono già asciutti e roventi.

Il mattino seguente, un po’ provati per la notte insonne, visitiamo la Medina; ci accompagna un tunisino che ci ha fermato per strada per offrirsi come guida, come fanno tanti. Questo ci è simpatico, almeno cerca di guadagnarsi qualche soldino onestamente, e non truffando i turisti come fanno gli altri.  Kairouan, dal punto di vista storico, è la città più importante del paese; dall’Islam essa viene considerata inferiore solamente alla Mecca, Medina e Gerusalemme. Inoltre, è la quinta città del paese in ordine di grandezza, ed è rinomata per la tessitura dei tappeti. La Medina, che si trova al centro della città, è tutta circondata da mura, nelle quali si aprono diverse porte: le principali sono la Bab ech Chouhada a sud e la Bab Tunis a nord. Visitiamo la Grande Moschea, che si trova nella parte nord orientale della Medina e ne è il monumento principale: l’edificio risale al 670 d.C., l’esterno è estremamente semplice e privo di qualsiasi tipo di decorazione, e ha piuttosto l’aspetto di un forte. Il cortile è pavimentato di marmo e circondato da un colonnato ad arco, ed è dominato dal minareto quadrato. I circa 400 pilastri della Sala delle Preghiere provengono da diverse località romane del paese, tra le quali anche Cartagine e Sousse; dietro il “mihrab”, vi sono piastrelle di ceramica del IX secolo provenienti da Baghdad insieme al legno del “minbar” (pulpito) situato di fianco. Usciamo dalla moschea, e andiamo a vedere la Zawiyya di Sidi Abid el-Ghariani, edificio risalente al XIV secolo, il cui interno contiene preziosi intagli in legno e stucchi di valore. Visitiamo poi il pozzo di Bir Barouta: in cima ad una scalinata, in uno spazio angusto, un dromedario girando in tondo tutto il giorno aziona il meccanismo di sollevamento dell’acqua del pozzo. I turisti fanno la fila per fotografarlo e lasciare la prevedibile mancia. La fama di questo pozzo è dovuta al fatto che si ritiene sia collegato alla Mecca e abbia perciò un’acqua dagli effetti miracolosi. Si visitano poi i Bacini degli Aghlabiti, cisterne di notevoli dimensioni in fondo alle quali si è accumulata una considerevole quantità di spazzatura; furono costruite nel IX secolo ed erano rifornite da un acquedotto che attingeva l’acqua da una sorgente situata a circa trenta chilometri di distanza. La più grande delle due cisterne ha un diametro di circa centotrenta metri: al centro vi sono delle colonne che in passato sorreggevano un padiglione dove i sovrani potevano rilassarsi al fresco nelle serate estive. La Zawiyya di Sidi Sahab venne costruita in onore di Abu Zama el-Belaoui, un santo amico di Maometto, famoso perché portava sempre con sé tre peli della barba del Profeta. Per questa ragione egli è conosciuto anche come il barbiere del Profeta e spiega l’attuale nome della zawiyya: Moschea del Barbiere. Passando per un corridoio riccamente decorato si va dal cortile bianco a quello principale della zawiyya, anch’esso decorato con piastrelle e stucchi, e la tomba del santo è situata all’estremità del cortile.

Come prevedibile la Medina trabocca di negozi di souvenir, e alcuni mercanti hanno incominciato a ricorrere in una certa misura allo stile aggressivo dei commercianti marocchini. Dopo un’animata discussione con un commerciante piuttosto sgarbato riusciamo ad acquistare alcuni abiti femminili tipico del paese, e dopo poco veniamo agganciati anche dal solito venditore di tappeti; nonostante i buoni propositi formulati prima della partenza, non riusciamo ad uscire dal negozio senza averne acquistato uno. Questo mercante però almeno è simpatico, contrattiamo ben bene sul prezzo e dopo vari “tira e molla”, ci regala pure un tappetino da preghiera. Per le strade della Medina incontriamo un tunisino che tiene uno scorpione al “guinzaglio”; ha legato una cordicella alla coda dell’insetto, che ovviamente sta in posizione di attacco con la coda ricurva e il pungiglione puntato in avanti, e lo fa passeggiare sul marciapiedi, tra la gente incuriosita e spaventata.

Mangiamo qualcosa e partiamo dalla bella Kairouan tornando verso nord, in direzione della città di Sbeitla.

Facciamo sosta al sito archeologico di Sbeitla, l’antica città romana di Sufetula. Il primo monumento che si incontra arrivando è l’Arco di Trionfo di Diocleziano, situato in mezzo agli eucalipti a destra della strada; poi seguiamo un sentiero che porta al Foro, cinto di mura, sul cui lato settentrionale sorgono tre bei templi, che anche se sono stati ampiamente ricostruiti, testimoniano assai bene come la città fosse stata costruita intorno a loro. Dietro ad essi vi sono le rovine di due chiese: la prima è una basilica a tre navate e la seconda una cattedrale bizantina a cinque navate. Sul lato di quest’ultima, rivolto verso il Foro, si trova un battistero decorato da mosaici. Vicino al fiume c’è anche un teatro, in cattive condizioni, ma che in passato deve essere stato bellissimo, grazie alla posizione proprio sopra le rive del fiume.

Pranziamo nel ristorante di fronte all’ingresso del sito: si mangia molto bene e la cifra che ci chiedono è onesta, inoltre possiamo goderci per un’oretta l’aria condizionata del locale e la veduta sul sito archeologico, prima di tornare nella fornace. Usciti dal ristorante telefoniamo ad un ragazzo tunisino che lavora in Italia e che abbiamo conosciuto tramite un amico comune; si chiama Hosni, è tornato in Tunisia per sposarsi e ci ha invitato al suo matrimonio, che si celebrerà domani. Ci incontriamo con lui, e tutti insieme andiamo a casa sua, che si trova in campagna nei dintorni di Sbeitla. L’idea che può avere un europeo di “campagna” ricorda sicuramente prati verdi e alberi; quella che il nostro amico Hosni definisce “campagna” non è altro che un rettangolo di deserto assolutamente arido con in mezzo la sua casa. La casa è molto semplice, un parallelepipedo in mattoni diviso in due piani con al posto del tetto un terrazzo. Internamente, ci sono pochi mobili: solo la cucina e i letti, al posto dei divani ci sono materassi appoggiati direttamente in terra, che possono fungere da letto per gli ospiti e da sala da pranzo; infatti ceniamo tutti insieme, seduti su questi materassi. Ci vengono presentati i genitori, fratelli e sorelle, nonni e nonne, cugini, cognati e amici. Dopo cena, io e Enzo torniamo a Sbeitla, a dormire nell’unico albergo, l’Hotel Sufetula, che si trova cinquecento metri oltre le rovine, sulla strada per Kasserine. È un hotel tre stelle, piuttosto anonimo e con scarafaggi giganteschi (le cosiddette “blatta orientalis”), onnipresenti nella sala da pranzo e nei corridoi delle camere. La porta della nostra camera viene preventivamente sbarrata con un asciugamano arrotolato, appoggiato contro allo spiffero inferiore onde evitare l’ingresso agli sgraditi ospiti.

Il giorno seguente decidiamo di andare a visitare il sito romano di Maktaris, distante duecento chilometri da Sbeitla, sito semisconosciuto e quasi ignorato da guide turistiche e carte stradali.

Il caldo è come sempre enorme, anche oggi siamo intorno ai 51 gradi; l’aria condizionata della camera, che fortunatamente di notte funziona, la mattina viene spenta, quindi ci affrettiamo a fare colazione e ad avviarci verso Maktaris.

Percorrere i duecento chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, attraversando zone completamente desertiche, con il caldo terribile, può sembrare una follia, però non ci pentiamo della nostra decisione: il sito è suggestivo, c’è un bell’arco di trionfo, i resti di alcuni edifici e templi immersi nella solitudine ed un piccolo ma interessante museo ricco di reperti ivi ritrovati e bei mosaici. Inoltre, a visitarlo ci siamo solo noi due, cosa che rende ancor più magica questa escursione.

Sulla via del ritorno acquistiamo in una bancarella sulla strada un bel po’ di bellissima frutta fresca, poi ci fermiamo all’ombra di un albero a mangiarcela. Tornati in albergo, sfiniti dal caldo, passiamo qualche ora in piscina poi ci cambiamo per andare alla festa di matrimonio di Hosni. Per l’occasione sfoggerò l’abito etnico che ho acquistato, dopo una feroce contrattazione, a Kairouan. La casa di Hosni è piena di gente, nel cortile è stato montato un palco sul quale suonano musicisti. Dopo un po’ arriva la sposa, accompagnata in macchina da fratelli e sorelle e seguita da un corteo di auto strombazzanti, proprio come usa in Italia. Come negli altri paesi di religione musulmana, il matrimonio è un atto esclusivamente civile.

La sposa, che si chiama Rosa, è vestita con un abito bianco col velo, alla moda europea, e anche Hosni indossa un elegante completo con cravatta, acquistato in Italia. Viene distribuita la cena e la festa vera e propria inizia. Gli sposi si siedono su due poltrone addobbate come troni reali e posizionate su un soppalco nel cortile, in modo che da una posizione leggermente sopraelevata possano vedere gli invitati ballare: la tradizione impone loro di starsene lì seduti tutta la sera a farsi vedere e fotografare, tranne poche occasioni nelle quali possono scendere a ballare con gli altri, la sposa con le donne, lo sposo con gli uomini. Nei paesi musulmani uomini e donne ballano in gruppi separati. La serata prosegue nel più grande frastuono, tra grida, risate e musica berbera; dopo diverse ore, comincio veramente ad annoiarmi: in vita mia non ho mai voluto imparare a ballare, e ho sempre trovato le feste danzanti e i matrimoni piuttosto noiosi. Enzo invece sembra divertirsi, e prova di ballare le danze berbere suscitando l’ilarità generale, sia perché non è capace, sia perché si mette a ballare i mezzo alle donne.

Io, sempre più annoiata, vado a vedere la festa dall’alto del terrazzo sul tetto della casa. Dopo un po’ mi raggiungono anche Enzo e Hosni, e mentre guardiamo tutti in basso gli invitati che ballano, Hosni si accorge che c’è uno scorpione a pochi centimetri dal mio braccio. L’animale viene prontamente eliminato, io fortunatamente mi sono accorta della sua presenza solo all’ultimo momento, altrimenti avrei rischiato l’infarto: questi animali suscitano veramente un enorme ribrezzo.

Hosni e la moglie verranno a dormire nel nostro albergo a Sbeitla stanotte, e domani partiranno per il viaggio di nozze; gli abbiamo promesso di attenderli, e finalmente, a tarda notte, con loro ed alcuni parenti, riusciamo a lasciare la chiassosa festa, che proseguirà fino al mattino. Una volta giunti all’albergo, i parenti accompagnano gli sposi fino in camera. In questo paese usa che i parenti dello sposo rimangano fuori dalla porta della camera fino alla conferma della verginità della sposa.

Il giorno successivo salutiamo Hosni e Rosa e proseguiamo il nostro viaggio tornando verso sud, in direzione di Tozeur. La temperatura oscilla sempre tra i 50 e i 51 gradi di giorno; a pranzo ci fermiamo in un ristorante sulla strada, e mentre stiamo parcheggiando il Tenerè si affianca a noi una coppia di Pordenone, Nicola e Franca, che viaggiano su un’Africa Twin color nero e oro. Parcheggiano la moto accanto alla nostra e iniziamo a chiacchierare: è il loro primo viaggio in Africa, sono molto provati dal caldo e molto perplessi dal comportamento dei tunisini. Entriamo insieme nel ristorante, un salone grande e anonimo dove scaricano a pranzare i viaggi organizzati; mangiamo allo stesso tavolo, poi ci salutiamo e ripartiamo, ognuno per la sua strada. Arriviamo a Tozeur dopo un alternarsi di panorami desertici e monotone distese di ulivi, e seguendo i consigli della solita Lonely Planet ci fermiamo all’Hotel Continental. Stavolta il consiglio della guida è valido; l’hotel è tre stelle, ma è bello, moderno, pulito, con una grande piscina tra le palme, e inoltre è economico. Come tanti alberghi e ristoranti in Tunisia, ci sono nella hall voliere piene di pappagallini ondulati, quelli chiamati comunemente “cocorite” dai bellissimi colori: da questo viaggio nascerà la mia passione per i pappagalli, osservando ammirata le evoluzioni e il bellissimo piumaggio di questi animaletti.

Ci danno una camera al piano terreno: ci togliamo gli abiti da moto, facciamo la doccia poi io vado in piscina mentre Enzo, tanto per cambiare, va a dormire. Quando arrivo in piscina, mi sento chiamare: casualmente sono capitati nello stesso nostro albergo anche i due ragazzi dell’Africa Twin che abbiamo incontrato oggi a pranzo. Iniziamo a chiacchierare e ci scambiamo opinioni sulla vacanza in corso; dopo un po’ arriva anche Enzo, che inevitabilmente inizia a raccontargli i nostri precedenti viaggi in Medio Oriente.

La sera andiamo a cena insieme a loro in paese; appena si esce dall’albergo e dall’effetto dell’aria condizionata, il caldo si fa sentire sempre più opprimente, nonostante l’ora tarda. I nostri nuovi amici non sono particolarmente entusiasti della Tunisia, e oltre al caldo, non riescono ad adattarsi alla mancanza di pastasciutta e di pizza. C’è una piccola pizzeria all’angolo di una casa, con tanto di insegna che reclamizza aria condizionata all’interno; ci lanciamo qui dentro, sperando nella frescura agognata. In realtà, è più caldo dentro che fuori. I nostri amici mangiano una pizza dall’aspetto sconcertante, noi ordiniamo qualche piatto locale, che per fortuna troviamo nel menù. Una volta finita la cenetta, andiamo a visitare il Museo Dar Charait, che si trova quasi di fronte alla pizzeria; possiede una vasta collezione di ceramiche e di oggetti antichi e ha una galleria d’arte, ma la parte più interessante è costituita dalle stanze che riproducono scene della vita tunisina, presente e passata, tra cui la camera da letto dell’ultimo bey, un ambiente di palazzo, una tipica cucina, un hammam, scene di una cerimonia di nozze e una tenda beduina. Al museo viene anche proposto uno spettacolo di musica e luci  in un giardino popolato di statue, intitolato “le mille e una notte” e ispirato per l’appunto alla famosa fiaba. Dopo di che, tornando verso l’albergo, acquistiamo in un negozietto di souvenir uno scorpione giallo imbalsamato, enorme e repellente: in Tunisia ne vendono tanti, come souvenir, chiusi in piccole teche di vetro.

Il giorno seguente tutti insieme andiamo al villaggio di Metlaoui, per andare a visitare le belle gole del Seldja con un vecchio trenino restaurato, il Lezard Rouge. Questa parentesi si rivelerà molto divertente: il treno è del XIX secolo, ha gli interni in legno, i sedili foderati in rosso, fotografie dell’epoca alle pareti degli scompartimenti, e un tempo era utilizzato dal Bey di Tunisi. Ora, rimesso a nuovo mantenendo le caratteristiche dell’epoca, è usato per far visitare ai turisti questa valle dai bei panorami rocciosi che si aprono sul fiume. Il viaggio dura circa un’ora e mezzo, e ogni tanto passa un cameriere che indossa in costume dell’epoca, che offre bevande ai viaggiatori. Al ritorno andiamo a vedere le Oasi di Montagna, che sono vicine: sono situate tra le aspre catene montuose a nord-ovest di Tozeur e offrono alcuni tra gli scenari naturali più suggestivi della Tunisia: verdi macchie di vegetazione circondate da spoglie e aride colline. Le piccole oasi della zona sono numerose, ma quelle che attirano la maggior parte dei visitatori sono gli insediamenti di Tamerza, Mides e Chebika, località molto diverse tra loro ma con un aspetto in comune: le città originarie vennero distrutte durante l’inondazione del 1969, quando la regione venne devastata da una pioggia torrenziale che durò 22 giorni. Le abitazioni di terra si trasformarono in fango, e la gente lasciò le città per rifugiarsi nei nuovi insediamenti vicini. Arriviamo a Tamerza, che è l’oasi più grande: veniamo avvicinati dall’immancabile tunisino che ci vuol fare da guida, pensiamo che ci faccia risparmiare tempo per trovare le strade quindi accettiamo, ma ingenuamente non contrattiamo il prezzo in anticipo.

Tamerza è situata in fondo a una valle abbastanza ampia: lo scheletro dell’antica città di sabbia circondata da mura si trova a nord delle palmeraie, e abbandoniamo le moto per seguire a piedi il corso di un torrente, che finisce contro ad una parete di roccia dove c’è una piccola cascata. Il posto è grazioso e fresco, e ci togliamo le scarpe per camminare nell’acqua. Andiamo poi a vedere Mides, meno spettacolare perché tagliata a metà da una gola profonda che un tempo fungeva da fortificazione meridionale della città. Qui siamo ad appena un chilometro dal confine algerino. Ci spostiamo poi a Chebika, da dove si può godere una bellissima veduta sullo Chott el-Gharsa. Noi ci muoviamo con le nostre moto, il tunisino con un vecchio motorino.

Alla fine dell’escursione, ci fermiamo a bere un tè alla menta in un piccolo bar, dove Enzo compra un altro scorpione imbalsamato, grosso e orrido come l’altro ma di colore nero. Quando vogliamo pagare il ragazzo che ci ha accompagnato, questo ci spara una cifra spropositata, qualcosa come mezzo milione di lire. Nasce un’accesa discussione, il tunisino si impunta, e a noi da molto fastidio essere presi per stupidi. Alla fine riusciamo a farlo ragionare e gli diamo una cifra adeguata al lavoro che ha fatto. Ci servirà di lezione per un’altra volta: contrattare sempre prima il prezzo e non fidarsi di questa gente.

L’indomani, tutti e quattro andiamo a visitare l’oasi di Nefta, ventitre chilometri a ovest di Tozeur, l’ultima città tunisina prima del confine con l’Algeria, situato a Haouza. In una certa misura si tratta di una versione ridotta di Tozeur: vi si trova la stessa bella architettura, con alcuni splendidi esempi di costruzioni in mattoni nelle parti antiche della città. L’aspetto più spettacolare di Nefta è la “corbeille”, che taglia la città in due. All’estremità settentrionale vi è una sorgente calda, nascosta in mezzo alle palme sotto il Cafè de la Corbeille, con vasche sia per gli uomini che per le donne. In punta alla corbeille c’è la Zawiyya di Sidi Brahim, dove è sepolto il santo con alcuni dei suoi seguaci. La corbeille conduce all’oasi vera e propria, situata sul lato meridionale della città: passeggiamo nella palmeraia, che ha la stessa grandezza e la stessa importanza di quella di Tozeur; sotto alle fitte palme da datteri la terribile calura di agosto diviene anche umida, e per questo ancor più fastidiosa.

Riprendiamo le moto e ci dirigiamo verso il confine algerino, che è vicinissimo; un ometto che lavora nella palmeraia ci ha detto che su questa strada facilmente si vedono i miraggi, e in effetti è vero. Guardando verso il deserto, in lontananza, per effetto del calore sembra di vedere un lago circondato di alberi. Sono quasi le 13.00 e il caldo è allucinante; l’asfalto è bollente, dobbiamo coprirci ogni millimetro di pelle scoperta per evitare di bruciarci con l’aria rovente, pertanto decidiamo di tornare indietro. Ci fermiamo nuovamente a Nefta e pranziamo con un sacchetto di fichi d’india che abbiamo acquistato da un ambulante, poi torniamo a Tozeur, a riposarci nella piscina dell’albergo. Il giorno seguente riprendiamo le moto e andiamo in giro per Tozeur. Ci sono negozi coloratissimi, che vendono tappeti, rose del deserto, abiti e gioielli etnici e gli immancabili cammelli di pelouche. Andiamo a visitare l’enorme oasi, che si estende su un’area di più di dieci chilometri quadrati: ovviamente a piedi è impossibile girarla tutta, e troviamo il solito tunisino che ci vuole fare da guida. Contrattiamo il prezzo in anticipo e lo ingaggiamo. Ci mostra tutte le varie specie di palme e le innumerevoli qualità di piante, ci fa vedere come funziona il complesso sistema di canalizzazione dell’acqua che irriga le piante dell’oasi, e ci accompagna a vedere un miraggio. Camminiamo come dei disperati sotto il sole in pieno Sahara, alle 11.00 di mattina, rischiando il colpo di calore, ma del miraggio neanche l’ombra: cerchiamo di proporre di tornare indietro, ma Enzo si è intestardito a voler vedere il famoso miraggio, e non vuole sentire ragioni. Dopo un’altra ora di cammino, ne abbiamo veramente abbastanza, il miraggio non si vede pertanto torniamo verso l’oasi: come all’oasi di Nefta, sotto le palme il caldo è molto umido e perciò soffocante, ma ugualmente ci sembra di rinascere. La visita è finita: nonostante il suo compenso fosse stato stabilito fin dall’inizio, la nostra guida pretende una cifra molto più alta di quella richiesta. Noi ci impuntiamo e dobbiamo nuovamente contrattare; alla fine della contrattazione, il tunisino riesce anche a venderci una bottiglia di vino di palma, che prendiamo per curiosità. È cattivo e nessuno di noi riesce a berlo: la regaleremo al ragazzo che lavora nel bar dell’hotel. Per finire, al andiamo ad assistere al tramonto nel deserto dalle Rocce del Belvedere: un sentiero di sabbia che si diparte dal Museo Dar Charait conduce ad un gruppo di rocce conosciuto col nome di Rocce del Belvedere: nelle rocce più alte sono stati scavati dei gradini che danno accesso a un punto elevato, da cui si gode una veduta spettacolare dell’oasi e dello Chott. Stasera ceniamo in albergo, e dopo cena andiamo in paese a caccia di souvenir: acquistiamo alcune bellissime rose del deserto, che in questa zona abbondano, e alcuni oggetti in ceramica decorata a mano, anch’essi di produzione tipica della zona. Ormai siamo una squadra con i ragazzi dell’Africa Twin, e proseguiremo il viaggio insieme.  

La mattina seguente ci alziamo prestissimo, perché dobbiamo arrivare a Douz, la porta del Sahara, e per fare ciò dobbiamo attraversare lo Chott el-Djerid, il grande lago salato di quasi cinquemila chilometri quadrati asciutto per la maggior parte dell’anno, la cui superficie con il caldo si screpola e luccica al sole. Proprio nel mezzo è attraversato da una strada, ai cui lati si possono ammirare, oltre alla immensa distesa bianca del lago asciutto, frequenti miraggi con sorprendenti effetti ottici. In ogni caso, il lago con il calore del giorno diventa una spaventosa fornace, quindi partiamo da Tozeur alle 5.00 e viaggiamo veloci sulla strada che taglia in due lo Chott el-Djerid, riuscendo a passarlo prima che faccia veramente caldo. Il panorama ormai è completamente desertico, stiamo viaggiando in mezzo alle dune. Arriviamo a Douz e ci infiliamo nel primo albergo che troviamo, perché la temperatura è già elevatissima. L’Hotel Tuareg è costruito alla maniera di un’antica kasbah, con tutte le merlature, ha una bellissima piscina con al centro un isolotto con le palme e aria condizionata ovunque. Nel parcheggiare il Tenerè, Enzo urta con una valigia laterale una delle valige di Nicola, perde l’equilibrio e gli cade la moto: i danni si limitano alla sua valigia graffiata e ad una freccia rotta, che viene momentaneamente riparata con nastro isolante. Dopo aver scaricato le moto ed esserci sistemati, facciamo venire l’ora di pranzo facendo un giro con le moto scariche nel paese. Intorno a noi è vero Sahara, la gente è tutta in casa al riparo dalla calura e incontriamo solo un gruppo di dromedari che sonnecchia sotto il sole; è mezzogiorno, la temperatura è di 52 gradi, l’aria è talmente calda che si fa fatica a respirare; la nostra idea non ci pare più tanto buona, e torniamo in albergo, nella frescura dei condizionatori. Pranziamo al self service dell’albergo e nel pomeriggio andiamo a rinfrescarci in piscina. Tra l’altro, oggi è il giorno dell’eclissi di sole. Dopo un po’ la temperatura sembra abbassarsi, la luce del giorno si attenua; tutta gli ospiti della piscina sono col naso all’insù a guardare l’eclissi. Con una lente scura si riesce a vedere il disco solare parzialmente coperto dalla Luna. La piacevole sensazione data dall’abbassarsi della temperatura dura solo fino al passaggio del nostro satellite davanti al sole; dopo circa venti minuti il caldo torna soffocante. Più tardi, nel tardo pomeriggio, andiamo con Nicola e Franca a fare un giro nel deserto con i dromedari. Il cammelliere ci fa vestire come tuareg, e inizialmente l’idea ci sembra abbastanza stupida anche se accettiamo di buon grado. In realtà, si dimostrerà una vera fortuna, perché mentre siamo in marcia nel deserto si alza un vento forte che fa volare sabbia ovunque. La testa è completamente avvolta nelle lunghe strisce di stoffa all’uso dei tuareg, e con queste ci copriamo anche la bocca, proprio come fanno loro, perché altrimenti si riempirebbe di sabbia. Ringraziamo le jellabe che riparano i vestiti, e non ci fidiamo a tirar fuori le macchine fotografiche, per paura che la sabbia finissima le rovini irreparabilmente. Ci fermiamo al riparo di una duna più alta delle altre e facciamo sdraiare i dromedari: il mio, che ha voglia di grattarsi la schiena, inizia a fare le capriole. Il vento qui è meno forte; aspettiamo il tramonto, che non è dei migliori a causa della sabbia alzata dal vento, scattiamo un po’ di foto poi rientriamo. La sera, in albergo, nonostante fossimo ben coperti, ci ritroviamo la sabbia dappertutto, capelli, orecchie, bocca, dentro i vestiti, persino dentro alle calze, alle mutande e al portafoglio.

Il mattino seguente lasciamo Douz; è giovedì, giorno di mercato, e ci fermiamo a visitarlo: si svolge nella piazza di Douz, che normalmente è semideserta, e vi si trova un po’ di tutto, dai souvenir ai generi alimentari, dall’abbigliamento ai casalinghi. Acquistiamo una bella pipa in argento lavorata a mano, e nella stessa bancarella, anche un altro scorpione giallo, enorme e orribile, imbalsamato e chiuso nella solita scatoletta di vetro, da regalare ad una amico di Enzo. Partiamo poi in direzione di Gabes. Vi arriviamo nel tardo pomeriggio, e cerchiamo una sistemazione: troviamo un hotel 1 stella, brutto e sporco, sicuramente spendiamo poco ma Franca il mattino seguente trova scarafaggi in camera. Ceniamo in una modesta locanda che come unico piatto propone pollo allo spiedo e patatine, poi ci fermiamo in un piccolo giardino pubblico dove c’è un chiosco che noleggia narghilé e ci facciamo una fumata di tabacco alla mela.

Il mattino presto ripartiamo per andare a Matmata. Appena arrivati veniamo avvicinati dal solito personaggio che offre i suoi servizi di accompagnatore, chiedendo una cifra esorbitante. Ormai stanchi di questi individui, ringraziamo ma gli diciamo che preferiamo arrangiarci da soli.

Nel tentativo di sfuggire al caldo insopportabile, i Berberi della zona di Matmata alcuni secoli fa si trasferirono sotto terra e trovarono questa soluzione talmente soddisfacente che da allora vi sono rimasti. Le loro case sono tutte costruite con lo stesso sistema: nel terreno, che è molto irregolare, si scava un cortile centrale (di solito circolare) profondo circa sei metri e lungo il suo perimetro si scavano poi le camere. L’ingresso principale di solito è costituito da uno stretto tunnel che sale dal cortile fino alla superficie. Le case più grandi hanno due o tre cortili collegati l’uno con l’altro e alcune sono state ora trasformate in alberghi. A Matmata il paesaggio ha qualcosa di surreale e per il suo carattere lunare vi vennero girate alcune scene del film Guerre Stellari. Poiché vi sono poche case in superficie si ha l’impressione che nella città non vi sia nulla, ma le antenne della televisione e le automobili parcheggiate rivelano che in realtà c’è molto di più di quanto non si veda: facendo un giro si notano immediatamente decine e decine di crateri. Matmata è probabilmente una delle località più visitate del paese, ed è un luogo sicuramente molto particolare, ma ci dà l’impressione di essere falso, come ricostruito ad uso e consumo dei turisti. Le abitazioni sono fresche di vernice bianca, gli oggetti di uso domestico che dovrebbero rendere l’idea della vita in queste grotte sotterranee sono nuovi e fiammanti, e alcuni tunisini annoiati fingono di macinare grano e di tessere un tappeto; per osservarli è previsto lasciare la mancia, naturalmente. Sulla via del ritorno, ci fermiamo a bere un tè in un paesino sperduto e caratteristico. La nostra speranza di non essere trattati anche qui come i soliti turisti polli è vana; quando paghiamo, la cifra che ci viene chiesta per quattro tè e un gelato è spropositata. Per non discutere, paghiamo e ce ne andiamo, ma cominciamo ad averne abbastanza dei tunisini. Da Matmata decidiamo di andare a dormire a Medenine, per visitare il giorno seguente la regione degli “ksour” e Chenini. Arriviamo a Medenine: anche qui alberghi economici tutti pieni, troviamo posto solamente in un costoso 4 stelle, che naturalmente ci chiede una cifra altissima. Quando giriamo i tacchi e saliamo sulle moto per andarcene, l’addetto alla reception ci insegue e ci offre la stanza per metà prezzo. A questo punto accettiamo e scarichiamo le valige. L’hotel è bellissimo, si trova su una collina ed è formato da un corpo centrale che ospita la reception, il ristorante self service e il bar, e da tante piccole casette di pietra tra gli alberi, arredate in stile tipico. Al centro del gruppo di costruzioni, una grande piscina con cascate e getti d’acqua. Visto che è già tardi per andare in giro, decidiamo di riposarci un’oretta in piscina, e facciamo venire l’ora di cena per poi andare a dormire.

La mattina seguente andiamo a visitare Chenini, villaggio berbero arroccato sulle montagne, sul bordo di una stretta scarpata; la strada per arrivarvi è a tratti asfaltata, a tratti sterrata, a tratti pista di sabbia. Le case del villaggio sono ricavate da grotte nella roccia della montagna, con davanti un cortile recintato che contiene un altro paio di camere. In cima alla cresta si trova un vecchio ksar gran parte in rovina; alcune porte di ingresso sono così piccole che non si riesce a oltrepassarle. Lo ksar viene tuttora utilizzato come granaio: il bassissimo tasso di umidità della regione insieme alle buone condizioni di areazione dello ksar fanno sì che il grano possa restare immagazzinato qui anche per anni (fino a 10) senza deteriorarsi. Su una sella situata tra lo ksar e la cresta vera e propria c’è una bella moschea bianca, che raggiungiamo seguendo uno sterrato: sotto al piccolo portico della moschea ci sono un gruppo di ragazzine, e Enzo subito cerca di chiacchierare con loro, in un idioma incomprensibile fatto di parole inglesi, francesi, tedesche e spagnole. Mentre Enzo si dilunga nella improbabile conversazione, io e i nostri amici scattiamo foto al panorama: tutto l’insieme è molto bello e il villaggio occupa una posizione dominante sulle pianure del nord. Ci fermiamo a bere tè in un chiosco: il ragazzino che lo gestisce vuole barattare il mio orologio con uno dei bei monili beduini in argento che ha in esposizione. Per una volta sarò io a imbrogliare loro: scelgo una collanina e gli do l’orologio, che è un oggetto di plastica acquistato per poche lire da un ambulante a Tangeri, in Marocco, l’anno precedente. Il ragazzino, che credeva fosse uno Swatch, quando si accorge dell’errore si lamenta, ma io faccio finta di non capire, gli faccio un sorriso e me ne vado.

Andiamo a visitare l’affascinante zona degli ksour del sud; gli ksour (al singolare ksar) sono roccaforti berbere fortificate consistenti in diverse “ghorfe”, strutture ad arco destinate ad immagazzinare il grano, spesso alte anche più di tre piani. In origine i berberi costruirono le “ghorfe” esclusivamente come depositi ma, con l’invasione degli Arabi, furono costretti ad ampliare queste strutture per farne delle eccezionali postazioni difensive. Di solito occupano una posizione strategica e quindi si trovano spesso in cima ad una collina. Oggi gli ksour sono per la maggior parte in rovina, ma alcuni di essi vengono utilizzati in vari modi: per esempio, quello di Medenine è stato restaurato ed oggi occupa un nuovo mercato per turisti, mentre a Metameur una “ghorfa” è stata trasformata in albergo economico. Gli ksour più belli si trovano intorno a Tataouine e sono un po’ difficili da raggiungere: i loro nomi sono Beni Kheddache, Ksar Haddada, Ghoumrassen, Guermessa, Ksar Haddada e Douiret: le strade non sono in buone condizioni e i cartelli stradali sono molto scarsi. I villaggi di questa zona sono gli ultimi posti in cui ancora sopravvive la lingua berbera locale, chiamata “chelha”: è però purtroppo una lingua destinata a scomparire insieme agli anziani, suoi ultimi depositari. Mentre fotografiamo alcune “ghorfe”, un gruppo di ragazzini si avvicinano e ci chiedono in maniera insolente soldi per fotografare i granai abbandonati; ovviamente non sono i proprietari, ma cercano solo di sfruttare i turisti ingenui.

Il mattino dopo lasciamo Medenine e arriviamo in breve all’isola di Djerba, tanto decantata meta del turismo di massa.

Se bisogna prestare fede alla gente del posto, Djerba è la mitica terra dei Lotofagi, dove Ulisse venne trattenuto sulla via del ritorno dopo la guerra di Troia. Se è così, allora l’isola oggi è abitata dai discendenti di questo popolo, che viveva “in un oblio indolente, drogati dal leggendario frutto dolce come il miele”. Si è pensato che questo frutto potesse essere l’hashish, la giuggiola oppure il loto: comunque sia, in ogni caso questa è una bella storia esotica ampiamente sfruttata per attirare i turisti. L’isola si trova nel golfo di Gabès, alla sua estremità sud orientale una strada che corre su una diga la collega a Zarzis, e noi vi arriviamo proprio da qui. Grazie alla sia posizione meridionale, Djerba è dotata di un clima assai invidiato dagli europei, quindi durante i mesi estivi è sovraffollata, e i prezzi irrimediabilmente si alzano di conseguenza. L’isola è completamente piatta e costellata dai soliti immancabili ulivi, il panorama è monotono, il mare pieno di mucillaggine: non ci sembra tutto sommato un posto tanto paradisiaco. Vorremmo comunque fermarci qui un giorno per riposare, anche se il luogo non ci attira, ma tutti i grandi alberghi sulla costa sono riservati alle prenotazioni dei tour operator europei e per chi viaggia per conto proprio non hanno posto. Ci fermiamo nel paese di Houmt Souk, molto turistico, dove cerchiamo almeno un posto per mangiare. Il paese è pieno di ristoranti, pizzerie, paninoteche: sembra di essere a Rimini.

Nicola come sempre brontola perché guardando i menù esposti dai vari locali non trova pizza e spaghetti, quindi ci sediamo in uno di essi, scelto a caso. Dopo quasi un’ora di attesa, nessuno si è ancora fatto vivo a prendere l’ordinazione, nonostante il locale sia vuoto e il cameriere ci abbia visto bene. Seccati, ce ne andiamo e ci sediamo in un altro; qui vengono a prendere le ordinazioni quasi subito, ma ci fanno attendere ore il cibo. Se non altro, mangiamo bene. Dopo aver pranzato, facciamo due passi per il centro del paese, tra bancarelle colorate piene di souvenir, poi ce ne andiamo da Djerba, che abbiamo trovato estremamente deludente. Dall’angolo sud occidentale dell’isola prendiamo un traghetto che ci sbarca sulla terraferma.

È già tardo pomeriggio. Dal momento che non ci fermiamo a dormire a Djerba, e il centro abitato di una certa importanza più vicino è ancora Gabès, decidiamo di fermarci nuovamente a pernottare in questa città, ma stavolta cerchiamo un hotel migliore del precedente. Spendiamo qualcosa in più e troviamo posto all’Hotel Chems, tre stelle, sul mare. È grande, bello, pulito. E anche qui hanno le voliere con i pappagallini. Se non altro, sulla costa la grande calura dell’interno è mitigata dalla presenza del mare; da 52 gradi siamo scesi a 40, ma l’umidità è molto alta e ci rende fastidiosa la permanenza. Andiamo a cena in una piccola locanda, molto modesta, che cucina però un ottimo cous cous. Il giorno seguente diamo un’occhiata alla spiaggia: è gremita di gente e anche qui il mare è pieno di mucillaggine, quindi per farci un bagno aspetteremo i giorni prossimi, quando ci sposteremo ulteriormente.

La mattina dopo partiamo quindi in direzione nord, sempre costeggiando il mare. Il panorama è come sempre monotono, piatto, un’unica distesa di ulivi. Lungo la strada ci fermiamo a vedere un gioiello architettonico di epoca romana: l’Anfiteatro di El Djem. Il monumento è molto ben conservato ed è grande quasi quanto il Colosseo di Roma; è un vero spettacolo, e si erge imponente in mezzo alle piccole case del paese, dominando completamente il panorama. Esso costituì il vanto della città romana di Thysdrus, che possedeva anche ville sontuose piene di bellissimi mosaici. L’edificio è maestoso: lungo ben centotrentotto metri e largo centoquattordici, contiene tre gradinate che arrivano a trenta metri di altezza. Si calcola che potesse accoglier fino a trentamila persone, che rappresenta ben più del numero degli abitanti della stessa città. Sotto l’anfiteatro vi sono due lunghi corridoi, nei quali trovavano posto gli animali, i gladiatori e gli altri sfortunati che venivano poi spinti nell’arena perché combattessero fra loro per divertire le masse. Ci aggiriamo a lungo sulle gradinate deserte, nei corridoi sotterranei, tra le arcate superiori: in questo momento non c’è nessun altro visitatore nell’anfiteatro oltre a noi, e mentre Enzo, con Nicola e Franca sono sulle gradinate, io scendo ed entro nell’arena, dalla porta dalla quale probabilmente entravano i gladiatori. Per un attimo, alzando lo sguardo, mi sembra di vedere le gradinate gremite di pubblico, sento l’urlo della folla che incita i suoi eroi e il clangore delle spade contro gli scudi. Dopo la visita suggestiva dell’anfiteatro, ci fermiamo a vedere i bellissimi mosaici custoditi nel museo, secondi per importanza solamente a quelli del Museo del Bardo a Tunisi, e compriamo come souvenir un piccolo mosaico che raffigura una gazzella; ovviamente è moderno, ma è una fedele riproduzione di uno dei mosaici dell’antica Thysdrus.  Nel tardo pomeriggio arriviamo a Sousse e cerchiamo un albergo; anche qui l’impresa si rivela impossibile, la città è estremamente turistica, gli alberghi tutti pieni. Ne giriamo almeno una decina, e siamo alla disperazione quando vediamo l’insegna dell’Hotel Residence Echourouk, che offre appartamenti in affitto. Siamo molto lontani dal mare e dal centro della città, ma almeno qui c’è posto, e prendiamo un appartamento dividendo le spese in quattro. Il giorno seguente andiamo a vedere il mare. La spiaggia oltre a essere piccola è sovraffollata, pertanto anche qui rinunciamo al bagno. Sousse è la terza città della Tunisia, è un importante centro commerciale ed ha un grande porto; lungo la costa gli alberghi si susseguono incessantemente, e altri ne stanno costruendo per riempire ogni spazio eventualmente rimasto vuoto. Una delle caratteristiche più insolite di Scusse è costituita dal fatto che la linea ferroviaria Sfax-Tunisi taglia proprio a metà la trafficata piazza centrale: luci lampeggianti e campanelli segnalano l’arrivo dell’enorme locomotiva. Sousse era una importante città fenicia, chiamata Hadrumète, prima ancora che Cartagine venisse fondata; Annibale la usò come base contro i Romani durante la seconda guerra punica nel 202 a.C. Non venne distrutta dai Romani come Cartagine, ma si alleò con loro. Fu conquistata dai Vandali, dai Bizantini e dagli Arabi; una storia importante e millenaria per questa città che ora, a onor del vero, è poco interessante e troppo turistica.

Per far passare la giornata, andiamo a vedere la Medina, con un ribat (una specie di monastero fortificato costruito nel IX secolo per proteggere la popolazione dalle minacce che potevano giungere dal mare) e la Grande Moschea, che è un edificio piuttosto semplice, entrambi situati nell’angolo nord orientale della città vecchia. La zona vicino alla Grande moschea e al ribat è circondata di bancarelle che vendono souvenir, compresi gli inevitabili cammelli di pezza. La sera, con un triste trenino per turisti che gira sulla strada andiamo a visitare il vicino Port el-Kantaoui, un grande insediamento turistico pubblicizzato come “giardino dei piaceri del Mediterraneo costruito secondo la tipica architettura tunisina”. In realtà sarebbe più giusto definire questo posto come la capitale delle trappole per turisti: tutto è moderno, di tipico non c’è nulla, si trovano solo negozi di souvenir piuttosto cari, pizzerie e paninoteche. Per la gioia dei nostri amici, mangiamo una pizza cattiva e sempre col solito trenino torniamo a dormire nel nostro appartamento di Sousse.

Dal momento che anche questo posto è deludente, il giorno dopo ci spostiamo ancor più a nord, verso Nabeul. A Nabeul ci fermiamo, dopo la solita difficoltosa quanto infruttuosa ricerca, in un grande e lussuoso hotel 4 stelle, l’Hotel Kheops, perché è l’unico nel quale troviamo posto. La spiaggia dell’hotel non vale la pena, e per fare un bagno preferiamo la piscina. Anche qui fa grande caldo, umido. Nel pomeriggio andiamo a vedere la vicina Monastir. Questa città è situata su un promontorio circa a quindici chilometri a sud di Sousse, ed è stata in passato un piccolo e gradevole villaggio. Adesso è diventata un luogo di interesse nazionale, soprattutto perché qui è nato Bourguiba e qui ha già predisposto di essere seppellito. Tra i monumenti del centro spicca il mausoleo della famiglia Bourguiba, con le sue cupole gemelle, il ribat dell’VIII secolo e la Grande Moschea del IX secolo. Andiamo a visitare l’interno del possente ribat, che è stato quasi interamente ricostruito e pertanto manca di autenticità, però conserva ancora un’atmosfera abbastanza interessante. Dalla cima della torre si può godere di un bellissimo panorama della costa fino a Sousse. C’è anche un souk piuttosto turistico, con bancarelle piene di cammelli di peluche e commercianti “molto distratti” nel dare i resti. Torniamo a Nabeul, e la sera facciamo un giro a piedi in paese, famoso per la produzione di belle ceramiche; acquistiamo alcuni piatti e un pannello realizzato in piastrelle dipinte a mano, che finirà, piegato a metà, nella mia valigia, mentre parte dei vestiti viaggeranno nel ragno. L’indomani, salutiamo i nostri amici e la loro Africa Twin; noi abbiamo quasi finito i giorni di ferie, mentre loro hanno ancora una settimana. Ci dividiamo: loro vanno verso Kairouan e Sbeitla, che non hanno ancora visto, mentre noi torniamo a Tunisi, che loro hanno visitato all’inizio della vacanza.

Arrivati a Tunisi, troviamo posto all’Hotel Omrane, che ci hanno indicato Nicola e Franca. È economico, ma non è un gran ché, e di notte l’aria condizionata viene tenuta accesa, comunque molto bassa, un’ora sì e due no, quindi ci tocca soffrire ancora parecchio il caldo.

Rimaniamo tre giorni qui prima di imbarcarci; dobbiamo ancora visitare i siti archeologici di Dougga, Bulla Regia e Cartagine. L’ultimo giorno lo terremo tutto per lo shopping nel souk di Tunisi.

Il primo dei tre giorni lo dedichiamo a Bulla Regia e Dougga.

Il mattino seguente partiamo alla volta Bulla Regia, località romana famosa in quanto gli antichi abitanti cercarono di ripararsi dal caldo realizzando le proprie ville per metà sopra il livello del suolo e per l’altra metà sottoterra. Il sito è decisamente mal tenuto, e non viene in alcun modo valorizzato per farne una destinazione turistica: non vi sono informazioni sul sito, né qui né a Tunisi, e i cartelli gialli che contrassegnano i luoghi di maggiore interesse sono stati cancellati. Infatti facciamo molta fatica a distinguere ciò che stiamo vedendo, con il solo aiuto della guida Lonely Planet. Abbiamo l’impressione che ciò sia fatto volutamente, per lasciare il sito in balia delle presunte “guide” locali. Riusciamo comunque  a distinguere le Terme di Memmio, il Teatro, il Foro, dove sorgono il Tempio di Apollo e il Campidoglio. Vi sono anche molte ville, con una parte di esse seminterrata, come detto, per ripararsi dalla calura estiva. A Bulla Regia sono ancora in loco alcuni mosaici molto belli.

Finita la visita ci rimettiamo in viaggio per andare a Dougga: la nuova strada ci mostra finalmente un panorama più vario degli altri: le distese di ulivi lasciano spazio a morbide colline alberate. Il cielo si sta coprendo rapidamente di nubi nere e minacciose; ben presto iniziano scrosci d’acqua vicino a noi, ma come per magia il nostro Tenerè riesce sempre a farci evitare l’acqua. Quando arriviamo a Dougga il cielo è completamente nero: è altamente suggestiva la visita di questo pregevole sito archeologico con il colore grigio ferro delle nubi che fanno da sfondo. Speriamo che arrivi un temporale forte, che rinfreschi l’aria come sempre torrida, ma veniamo delusi. Il temporale non arriva e il caldo è sempre più opprimente. Oggi registriamo la giornata più calda di tutto il viaggio, 54 gradi all’ombra. Dougga, sede di bellissime rovine romane, si trova in una posizione dominante sul fianco delle montagne di Tebersouk: sei chilometri di strada asfaltata separano il paese omonimo dal sito archeologico, e a soli tre chilometri di strada sterrata si trova l’ancor più piccolo paese di Nouvelle Dougga, nel quale ora risiedono le persone che un tempo abitavano i luogo dove sorgono le rovine e che sono state spostate per proteggere i reperti archeologici da un ulteriore deterioramento. La maggior parte dei bellissimi mosaici di Dougga è esposta al Museo del Bardo di Tunisi. La città esisteva già in epoca punica, e all’inizio dell’epoca romana Dougga diventò una delle capitali di un alleato di Roma, il re Massinissa di Numidia. Declinò nel periodo dell’occupazione dei Bizantini e dei Vandali. Il primo monumento che si incontra è il teatro, restaurato, situato sulla destra, e poteva ospitare 3500 spettatori divisi su 19 ordini di gradini. Un sentiero che sale a destra subito dopo il teatro porta al Tempio di Saturno, eretto dove in precedenza ne sorgeva uno dedicato al dio semitico Baal, poi ritornando verso il teatro una strada tortuosa porta alla Piazza dei Venti. Sulla pavimentazione si trova un’enorme iscrizione, simile ad una rosa dei venti, che elenca i nomi dei dodici venti. Sul lato settentrionale della piazza si trova il Tempio di Mercurio, mentre su quello meridionale e occidentale si trovano rispettivamente il mercato e il Campidoglio. I Campidoglio è un monumento notevole, uno dei più belli della Tunisia. La scritta scolpita sul fregio del portico ricorda che la costruzione è dedicata agli dei Giove, Giunone e Minerva. Il portico, alto circa otto metri, è sostenuto da sei enormi colonne scanalate, e il fregio rappresenta l’apoteosi dell’imperatore Antonino Pio. Circa cento metri a ovest si trova il Tempio di Caelestis, e a sud del Foro un sentiero attraversa un’antica zona residenziale e conduce alle Terme di Licinio; la casa di Dioniso e Ulisse si trova sulla destra, e qui venne trovato il mosaico che rappresenta Ulisse incantato dalle sirene, ora al Museo del Bardo. Ci sono poi le Terme dei Ciclopi, che devono il loro nome ad un altro mosaico qui ritrovato rappresentate per l’appunto queste creature mitologiche, e un arco di trionfo dell’imperatore Settimio Severo.

Il giorno seguente è dedicato a Cartagine. Al sito archeologico di Cartagine, le cui rovine in realtà sono sparse in un’area piuttosto vasta e in mezzo alle abitazioni moderne, andiamo con una specie di metropolitana, chiamata TGM. La storia di Cartagine è piena di fascino per la posizione dominante che ebbe nel mondo antico, ma la distruzione operata dai Romani fu tale che oggi della città antica non è rimasto molto. Gran parte di ciò che resta da vedere è di origine romana.

Scendiamo alla fermata di Carthage Salammbò, e da qui visitiamo il Tophet e i porti punici. Il Tophet è un sito ove vennero alla luce tracce di sacrifici di bambini; come siano morti rimane tuttora argomento di discussione, ma si suppone che tali sacrifici venissero praticati in un’epoca molto antica, e probabilmente cessarono quando i cartaginesi vennero in contatto con i Greci e coi Romani. In quanto ai porti punici, oggi non suscitano una grande impressione, ma bisogna pensare che da qui le navi cartaginesi partirono per sfidare Roma. Quello settentrionale era la base navale ed era di forma circolare, con un diametro di trecento metri. Si dice che potesse contenere fino a 220 navi da guerra. Il porto meridionale era il centro della navigazione commerciale. Poi prendiamo la TGM che da Carthage Byrsa va a Carthage Hannibal e saliamo sulla collina per visitare il Museo Archeologico e il quartiere Byrsa. La collina di Byrsa domina l’intera zona, per arrivare in cima a piedi fatichiamo parecchio, e una volta arrivati visitiamo il Museo Archeologico, che è un grande edificio bianco accanto alla Cattedrale di San Luigi. Gli oggetti esposti nel museo sono stati recentemente riorganizzati grazie ad aiuti canadesi e americani e sono particolarmente interessanti gli oggetti punici esposti al secondo piano. Nel quartiere Byrsa, situato sul terreno circostante il museo, si trovano le uniche vere rovine cartaginesi rimaste. I Romani spianarono la cima della collina, seppellendo in tal modo le case cartaginesi: sono stati effettuati scavi accurati e i reperti ritrovati sono conservati nel museo. Scendendo dalla collina a piedi visitiamo l’anfiteatro e le cisterne. L’anfiteatro si trova sul lato occidentale della collina di Byrsa, e pare fosse uno dei più grandi dell’impero, ma oggi non ne rimane un gran ché, anche perché la maggior parte dell’edificio venne smontata in epoche successive per utilizzarne i materiali in altre costruzioni. Dall’altra parte della strada rispetto all’anfiteatro ci sono due grandi cisterne antiche che servivano per le scorte di acqua. Poi torniamo, sempre a piedi e con un caldo infernale, verso il mare, fermandoci a visitare le belle ville romane e il teatro. Il teatro è stato completamente ricoperto di calcestruzzo e nascosto dalle torri di illuminazione e dalle strutture utilizzate durante il festival di Cartagine che si tiene ogni anno; c’è davvero ben poco da vedere. La zona delle ville romane invece, e in particolare la Villa de la Volière, è molto bella, anche se è evidente che ha subito parecchi interventi recenti. Finiamo con la visita delle Terme di Antonino Pio, che sono situate proprio sul lungomare e sono notevoli soprattutto per le dimensioni e la posizione. Il giorno seguente è l’ultimo di questa vacanza. Il mattino andiamo a visitare il Museo del Bardo, che è il più bello dei musei del paese. Si trova in un sobborgo a ovest della Medina ed è situato in un palazzo con un grande giardino. È suddiviso in sezioni che riguardano le diverse epoche storiche: quella cartaginese, quella romana, il periodo paleocristiano e quello arabo-islamico. La parte più interessante e di maggiore effetto è sicuramente quella dedicata ai mosaici di epoca romana: non è eccessivo affermare che il Bardo possiede una delle collezioni più belle del mondo. I mosaici sono così numerosi da risultare quasi soffocanti: tra i migliori quello che raffigura il poeta Virgilio affiancato dalle Muse Clio e Melpomene e quello del monumentale Trionfo di Nettuno. Molto interessanti sono i resti di una nave che fece naufragio al largo di Madia nel I secolo a.C.: trasportava un carico di statue di marmo e bronzo, ora esposte nelle sale del museo. Dopo la visita del bellissimo museo cerchiamo il souk.

Chiediamo un’indicazione ad un uomo per strada, che ci fa segno dove dobbiamo andare e subito dopo ci chiede la mancia. La Medina di Tunisi non è sicuramente paragonabile a quella del Cairo e di Fès, ma con le sue moschee, i caffè e gli hammam costituisce il fulcro della vita di questa città. Anche qui c’è la Grande Moschea, poi la Medersa Mouradia, collegio islamico costruito sulle rovine di una caserma turca, poi piccole moschee, mausolei, palazzi, e i famosi souk. Il Souk de Chechias è rimasto pressoché uguale nel corso dei secoli, e qui è ancora possibile vedere al lavoro gli artigiani che confezionano i tradizionali cappelli di feltro rosso. Il Petit e il Gran Souk de Chechias si snodano a nord ovest della Grande Moschea, e offrono un’incredibile varietà di articoli; veniamo presi d’assalto dai negozianti, come prevedibile, e la scelta è molto vasta tra i bellissimi oggetti di artigianato, in particolare ceramiche, legno, stoffe e metalli lavorati a mano. Facciamo molti acquisti, e tra le altre mille cose delle quali abbiamo ormai riempito la moto, torniamo dal suq di Tunisi con un tamburo in terracotta e pelle di dromedario, alcune jellabe, vasi e piatti vari di ceramica decorata e una gabbia per uccellini artigianale, fatta a forma di moschea in legno e metallo e dipinta di bianco e azzurro. Queste gabbie sono bellissime, si trovano in tutti i souk e i negozi della Tunisia in tante misure diverse; in realtà non sono utilizzabili per gli uccelli, ma sono dei magnifici soprammobili. Oltre che verniciate di bianco, ci sono anche in legno naturale e metallo non verniciato. Oltre ai begli oggetti di artigianato, non resisto infine alla tentazione di acquistare un turistico cammellino di peluche, alto circa cinquanta centimetri. Il carico della moto davanti all’albergo, la mattina seguente, raduna un gruppo di curiosi. In tanti viaggi effettuati, non siamo mai riusciti ad accumulare tanti souvenir e così ingombranti. La gabbia, che è alta circa sessanta centimetri, viene riempita con tutti gli oggetti che riusciamo a farvi entrare, poi, ben insacchettata, viene legata sopra al portapacchi del bauletto posteriore. Sulla valigia destra è stato legato il tappeto di Kairouan, sulla sinistra il tamburo di terracotta. Vasi, piastrelle, piatti, piccole moschee in ceramica sono stati stivati sapientemente in mezzo ai vestiti, molti dei quali viaggiano già da giorni fuori dalle valigie, dentro a sacchetti di nylon fermati dal ragno elastico. Il cammello di peluche lo terrò io in braccio fino a casa, perché quello proprio non sappiamo dove metterlo.

Andiamo al porto, e dopo aver sbrigato le solite formalità, ci imbarchiamo sulla SNCM. Ci portiamo al sicuro in cabina la parte del carico della moto che non si poteva chiudere nelle valigie, e cioè una quantità incredibile di oggetti, sacchi, sacchetti, scatole, la gabbia e il cammello di pelouche. La navigazione procede perfettamente fino all’arrivo in Italia; sbarchiamo a Genova il mattino, nel pomeriggio siamo già a casa, intenti a sistemare tappeti, cammellini e gabbiette in ogni dove.

 

Aspetti positivi del viaggio, secondo noi:

         -        il ricchissimo patrimonio archeologico

         -        il fascino del Sahara  

         -        il costo della vita conveniente, rispetto ai nostri standard

Aspetti negativi del viaggio, secondo noi:

         -        i tunisini spesso risultano invadenti e sgradevoli, ben presto ti rendi conto che per loro uno straniero è solo un pollo da spennare e che fanno di tutto per cercare di raggirare l’ignaro turista                            

         -        in luglio/agosto fa veramente troppo caldo nell’interno e soprattutto nel deserto, anche se sulla costa mediterranea il clima è un po’ migliore, anche se più umido; sarebbe preferibile visitare questo paese in primavera o autunno

Preparazione moto: Yamaha Tenerè XT600

         -        irrigidito e alzato la sospensione

         -        montato camere d’aria da fuoristrada

Ricambi portati: Yamaha Tenerè XT600

         -        candele

         -        camere d’aria

         -        filo frizione

         -        una bottiglietta d’olio

         -        kit antiforature

Inconvenienti occorsi: caduta del Tenerè a seguito collisione involontaria contro la valigia dell’Africa Twin di Nicola: una valigia graffiata e una freccia rotta

Qualche informazione pratica: i distributori di benzina si trovano con frequenza, ogni 20, massimo 40 chilometri; cartelli di indicazione di strade e paesi sono frequenti e scritti anche in inglese. In ogni caso, se avevamo dubbi abbiamo sempre trovato persone gentilissime pronte a darci indicazioni o ad accompagnarci sui luoghi durante gli spostamenti, per mangiare ci siamo, come sempre del resto, fermati nelle taverne frequentate da camionisti, dove in genere si mangia bene: dove vedevamo molti camion parcheggiati significava che la cucina era buona

Guida utilizzata EDT - LONELY PLANET – TUNISIA

 Chilometri totali percorsi: 3.500   Giorni impiegati 25