LA PORTA DELL’ORIENTE

TURCHIA 2001, ovvero … UNA MOTO INSEGUITA DA UN CAMPER
 

La Turchia è a giusta ragione considerato la “porta dell’Oriente”. A metà strada tra Europa, Asia, Medio Oriente, si può considerare una fusione di tutte queste culture. Ambiguità, fascino, mistero, esotismo sono alcuni degli ingredienti che hanno contribuito per secoli e ancora, in certa misura, contribuiscono a creare in Occidente il mito di questo paese, con tutti i travisamenti, i pregiudizi e le fantasticherie al riguardo. È un paese sconfinato, di religione musulmana ma di cultura laica, grazie alle tante riforme apportate nel secolo scorso da Mustafà Kemal, conosciuto al mondo come “Atatürk”, “il padre dei turchi”, che è riuscito a modernizzarne notevolmente le abitudini e la cultura. È un paese dalla storia antichissima: Hattuşa era la capitale del regno Ittita, qui si estese il tentacolare impero persiano, qui esso si scontrò con il mondo greco, che aveva fondato fiorenti colonie sulle coste egee dell’Anatolia. La Turchia divenne poi parte dell’Impero Macedone di Alessandro Magno, nella sua corsa alla conquista del mondo allora conosciuto. Arrivarono dopo di lui i Romani, che vi hanno lasciato splendide vestigia. Bisanzio, poi Costantinopoli, fu capitale dell’impero romano d’Oriente. Venne invasa dai Crociati, poi dagli Ottomani, dai Selgiuchidi e infine dai Mongoli. Un vero crogiolo di razze e di storia. Il territorio è molto vario; si passa dalle montagne ricoperte di boschi alle steppe, dalle spiagge sabbiose alle scogliere, dai laghi salati agli altopiani. Il mare è ovunque splendido e cristallino. Un viaggio in Turchia soddisfa tutte le esigenze: quelle degli amanti della storia e dell’archeologia, quelle di chi cerca mare, spiagge e sole, quelle degli appassionati della montagna, quelle di chi  predilige la vita mondana o la tranquillità, o chi cerca l’emozione del primo approccio con una cultura orientale.

Questo viaggio è stato effettuato nell’agosto 2001; il tempo a disposizione stavolta era, fortunatamente, un mese intero.

La Turchia dal punto di vista geografico si articola in tre parti: altopiano anatolico, penisola anatolica e Tracia. Il 97% della sua superficie si trova in territorio asiatico; solo un’esigua parte, grande pressappoco come la Lombardia, si sporge al di qua del Bosforo e dei Dardanelli, a costituire la Turchia europea. A nord i confini sono rappresentati dal Mar Nero, a ovest e a sud sono lambiti dal Mediterraneo, tramite  l’Egeo, il Mar di Marmara e gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo. Il confine sud orientale segue il crinale della catena montuosa dell’Asia Minore che la separa dai tavolieri e territori pianeggianti della Siria orientale (Kurdistan), mentre a est il confine incorpora anche una parte dell’Armenia storica. Nelle terre interne, dominano le vaste pianure giganteschi coni vulcanici, quali l’Erciyes Daği e altri. Alcune zone sono caratterizzate da estese colate vulcaniche che ricoprono ampi territori di lava e tufo. È per questo che la regione chiamata Cappadocia, a causa del suolo tufaceo, è divenuta un vero e proprio mondo di favola, una terra dalle mille grotte e caverne, prodotte dall’erosione dei porosi strati di tufo. Alte catene montuose a nord e a sud racchiudono estesi bacini interni, mentre vaste estensioni di territorio sono steppa.

Ci imbarchiamo ad Ancona su uno dei traghetti della Minoan Lines, nave nuova e  velocissima che effettua la tratta Ancona-Igoumenitza (Grecia) in 18 ore. Sbarchiamo alle 06.00 di mattina ad Igoumenitza, e partiamo in direzione est alla volta della Turchia. Per noi questo è il sesto viaggio in questo splendido paese, uno di quelli che amiamo di più. Per i nostri amici Biagio e Marisa, con la figlia minore Irene, è il primo; loro viaggiano con un grande e confortevole camper (Mercedes Arca H6), sul quale abbiamo caricato anche due cani, la loro Labrador Melody e il nostro piccolo meticcio nero Eolo! Noi invece, sempre fedeli alla moto, siamo in sella alla vecchia Yamaha Tenerè.

È uno strano abbinamento, un camper e una moto. Sicuramente, per noi motociclisti è vantaggioso viaggiare in compagnia di un camper: tenda, sacchi a pelo, borracce e oggetti ingombranti vengono caricati sul camper, lasciando la moto più leggera. Abbiamo mantenuto montati solamente il bauletto posteriore e le valige laterali.

Passato il massiccio montuoso del Pindo, nel pomeriggio arriviamo a Agios Mamas, nella penisola Calcidica. Faremo la prima tappa qui, da una nostra amica greca, che abbiamo conosciuto anni fa quando abitava in Italia. Si chiama Maria, ed è veterinaria per piccoli animali. I nostri amici parcheggiano il camper nel giardino della villetta di Maria, noi veniamo ospitati in una stanza della sua casa. Il giorno seguente visitiamo Verghina, le Tombe Reali degli Argeadi, tra cui Filippo II° di Macedonia, padre di Alessandro Magno, e l’ultima moglie Cleopatra. Il nuovo sontuoso allestimento ospita in una cripta sotterranea le tre tombe più gli splendidi tesori ivi ritrovati, come le corone di foglie d’oro di Filippo, lo scrigno d’oro massiccio adorno della stella degli Argeadi, un mantello regale in tessuto porpora e oro, avvolto nel quale furono trovati i resti della principessa, uno scudo d’avorio riccamente decorato,  innumerevoli vasi in argento, e figurine finemente intagliate in avorio tra le quali un ritratto di Filippo e uno di Alessandro. Al rientro ad Agios Mamas, il pomeriggio è dedicato al mare.

Il giorno seguente visitiamo Pella, che fu capitale dell’impero macedone e città natale di Alessandro. Sono stati riportati alla luce colonnati di non chiara identificazione, probabilmente edifici pubblici, e bellissimi mosaici di ciottoli, trasportati nel Museo; il più famoso raffigura Alessandro e Cratero in una caccia al leone. Dopo un pranzetto a base di “tzaziki” e “souvlaki” in una taverna sulla strada, il pomeriggio ci spostiamo a Salonicco, per vedere diversi luoghi interessanti: l’Arco di Trionfo dell’imperatore romano Galerio, la Torre Bianca, sulla riva del mare, il monumento, moderno, ad Alessandro Magno e al suo cavallo Bucefalo, anch’esso sul mare. Dopo il doveroso omaggio al grande Alessandro, si visita il Museo Archeologico. Tra i pezzi salienti: un enorme cratere (vaso) in bronzo dorato, un vero capolavoro di lavorazione, poi sculture di periodo classico, ellenistico e romano, mosaici, steli funebri, armi ed armature dei soldati macedoni. Vi è anche, in una vetrina, uno scheletro ritrovato nella tomba considerata di Filippo II°. L’archeologo greco Manòlis Andrònikos ritenne appartenesse proprio a Filippo, in quanto la salma ha una gamba nettamente più corta dell’altra, e notoriamente Filippo era zoppo dalla nascita.

Il giorno seguente si riparte in direzione est alla volta di Alexandrupoli, città greca a pochissimi chilometri dal confine turco di Ipsala.  Ci fermiamo x dormire ad Alexandrupoli, in un bel campeggio sulla spiaggia, dove ci concediamo un bagno in mare, naturalmente con i cani.

La sera io e Enzo montiamo la nostra Igloo, nella quale dormiamo con Eolo, per il quale abbiamo portato un cuscino tutto per lui.

Il mattino seguente, arriviamo al confine: la dogana turca è relativamente più veloce di quelle dei paesi arabi, un un’oretta sbrighiamo tutto e possiamo ripartire. La strada verso Istanbul è tutta diritta, in un continuo saliscendi di colline, tra immensi campi di grano. Giungiamo alla città del Bosforo nel pomeriggio, sotto un cielo plumbeo ed una finissima pioggerella. L’estensione di questa metropoli è impressionante. Chilometri e chilometri di grigio cemento costituiscono l’immensa periferia, prima di potere avvicinarsi al mare e al centro della città.

Troviamo il campeggio, l’Ataköy Mokamp, quello che la nostra guida Lonely Planet segnala come il migliore. In realtà non è un gran ché, ha un’aria un po’ abbandonata e i servizi lasciano a desiderare. Appena sistemati camper e tenda, lasciamo i cani a sonnecchiare in camper e facciamo un giro per la città, accompagnati da un turco che con la sua auto si presta a farci da guida, in cambio di una piccola ricompensa. La moto rimane in campeggio, dal momento che il traffico di Istanbul è caotico, le auto non rispettano alcun limite di velocità e tanto meno semafori, precedenze o sensi unici.

Ormai ha fatto buio; passeggiamo nel centro della città per un’occhiata generale, vediamo dall’esterno la splendida Moschea Blu illuminata dai riflettori colorati dello spettacolo di “Suoni e Luci”, l’imponente Santa Sofia, la piazza dell’ippodromo. Qui sorgeva nell’antichità l’ippodromo di Costantinopoli; al centro della “spina” intorno alla quale correvano le quadrighe, sorgono tre monumenti molto interessanti: l’obelisco di Teodosio, monolito in porfido alto 26 metri, decorato da geroglifici, proveniente dal tempio di Karnak in Egitto, la Colonna di Costantino VII° Porfirogenito, un tempo ricoperta da lastre di bronzo dorato, ora di spoglia pietra, e la Colonna Serpentina, che Costantino portò qui da Delfi. A forma di tre serpenti attorcigliati, in bronzo, eretta dal generale spartano Pausania, a nome di tutti i greci, dopo la definitiva disfatta degli invasori persiani a Platea, era alta originariamente 7,8 metri. Ora le teste dei serpenti sono scomparse, e la colonna, spezzata, è alta solamente 4,5 metri.

Visto l’orario, ci apprestiamo ad un ristorante che ci ha indicato il nostro autista. È uno dei tanti locali sulla centrale Yeniçeriler Street, sotto la Moschea Blu. Questo è veramente molto alla buona, e inoltre non c’è nessuna scelta sul menù: solo şiş kebap (spiedini di carne) e insalata, che qui in Turchia è un misto di pomodori, lattuga, prezzemolo, cipolle, peperoncini verdi e cetrioli, il tutto tagliato a piccoli cubetti. Il cibo è buono, per fortuna, e la spesa minima, circa 3 euro a persona.

Un taxi ci riporta in campeggio. Ci siamo accordati con il nostro autista per il giorno seguente, perché ci faccia fare il giro per la città, in modo da non dover muovere camper e moto nel caos assoluto di Istanbul. Quindi la mattina seguente egli ci viene a prelevare con un furgoncino, sul quale carichiamo anche i cani, e partiamo. La prima meta è la Moschea Blu, il cui vero nome è Sultan Ahmet Camii. Costruita nel 1609 dal sultano Ahmet I°, è stata dotata, per distinguerla dalle altre moschee, di ben sei minareti anziché quattro. Splendida la sua cascata di cupole, inquadrata dalle guglie appuntite dei sei minareti; 260 finestre filtrano una meravigliosa luce che va a illuminare le maioliche blu e verdi alle quali la mosche deve il suo nome. Bellissimi il “minbar” e il “mihrab” di marmo bianco finemente lavorato, i tappeti di lana e seta che ricoprono il pavimento, i giganteschi lampadari ornati di pietre preziose.  Ricordiamo che per entrare in una  moschea è rigorosamente d’obbligo togliere le scarpe. Alcuni inservienti forniscono dei lunghi teli verdi alle donne che secondo il loro giudizio sono un po’ troppo scoperte.

La seconda visita è Santa Sofia, che sorge di fronte alla Sultan Ahmet Camii ed è separata da essa da un giardino ben curato. Eretta da Costantino nel 325 d.C. come chiesa cristiana, venne poi ricostruita da Teodosio II°. Nuovamente distrutta, fu ricostruita da Giustiniano che la volle “la chiesa più grande e più bella che ci sia”. Nacque così l’immensa basilica che, dopo la conquista della città ad opera degli Ottomani, venne trasformata in moschea con l’aggiunta di quattro minareti, una fontana per le abluzioni e un “mirhab”.  Le immagini sacre e i bellissimi mosaici che ne ornavano l’interno e l’esterno vennero ricoperti di intonaco. Nel 1935 Atatürk decise di fare della chiesa un museo laico e culturale, riportando alla luce i mosaici superstiti. L’aspetto è grandioso e potente. Purtroppo, internamente l’immensa cupola, alta oltre 50 metri dal terreno, è in corso di restauro, pertanto è ricoperta da enormi impalcature, che la nascondono parzialmente alla vista. La prossima meta è la bella Süleymaniye Camii, Moschea di Solimano. Posta su una collina, domina il Corno d’Oro, il Ponte di Galata e il porto. Solimano volle costruire una moschea grandiosa al punto da eclissare l’orgogliosa Santa Sofia di Giustiniano il Cristiano. Un po’ più piccola della Sultan Ahmet, anch’essa è ornata da un’immensa cupola centrale, che si innalza fino a 53 metri dal suolo e posa su un tamburo forato da 32 finestre. Due semicupole, anch’esse munite di finestre, completano l’insieme. Le 150 finestre e vetrate fiorite danno alla sala una luminosità senza eguali.

Per visitare questi luoghi sacri naturalmente i cani non sono ammessi, quindi entriamo a turno, mentre gli altri restano fuori con le belve. I cani non sono molto comuni nei paesi musulmani, perché secondo il Corano il cane è un animale impuro, e in una casa dove c’è un cane non entrano gli angeli. I pochi che hanno cani, li tengono in giardino. Proseguiamo la visita di Istanbul con il Palazzo Dolmabahçe, costruito nel XVII° secolo dal sultano Ahmet I°, in seguito ingrandito ed abbellito dai successori. L’aspetto odierno è un uno stile rinascimentale-barocco, un po’ pesante; attorno ad esso, giardini disseminati di fontane, laghetti, statue. Dal 1853 fu la residenza di tutti i sultani. Alla caduta del sultanato, divenne il palazzo presidenziale di Mustafà Kemal “Atatürk”, che vi morì nel 1938 all’età di 57 anni. Da quando la capitale è stata trasferita ad Ankara, il palazzo accoglie gli ospiti ufficiali stranieri di passaggio ad Istanbul. Splendide sale, saloni, camere, anticamere, bagni, uffici, si susseguono uno più sontuoso dell’altro, in una esuberanza di bronzi, cristalli, ceramiche, essenze rare, tessuti e pietre preziose. Sulla piazza prospiciente il Dolmabahçe, si notano due capolavori dell’architettura barocca: la Torre dell’Orologio (Kabataş Iskelesi) e la Moschea di Dolmabahçe.

La prossima meta è la collina di Çamlica, nel quartiere di Üsküdar, nella parte asiatica di Istanbul. Si attraversa il Bosforo su uno dei due ponti sospesi. Dall’alto della collina, il panorama sulla città e sul Bosforo è superbo. Pranziamo qui, in un ristorante tipico, in mezzo ad un bel parco alberato. Il pomeriggio visitiamo la Yerebatan Sarnıçı, chiamata anche “il palazzo inghiottito”. Questa suggestiva costruzione, dovuta a Costantino, era  la cisterna sotterranea dell’antico palazzo imperiale. Giustiniano la ingrandì ulteriormente. Ricorda una cattedrale sepolta: le volte di mattoni sono sostenute da 336 colonne, sormontate da capitelli corinzi carichi di sculture. Dopo anni di restauri, e dopo aver eliminato tonnellate di fango e pietre, sono state portate alla luce le sculture che ornano i piedi delle colonne.  Vi è tuttora acqua all’interno, e vi sono stati messi anche pesci. Il tutto è illuminato da suggestivi faretti, con un sottofondo musicale.

Al rientro, si prepara la cena. Una delle tante comodità di viaggiare con un camper è, ad esempio, che ti puoi cucinare una cenetta di tuo gradimento, tranquillamente in campeggio, senza dover cercare ristoranti e taverne in giro per la città. I cani, soprattutto il nostro Eolo, scorrazzano per il campeggio facendo ogni sorta di disastri, come ad esempio strofinarsi su tutto quello che di più maleodorante trovano in giro (non scendo in particolari), per poi venire a dormire nella nostra “igloo”.  Eolo viene subito lavato, nei lavatoi del campeggio; appena libero, torna immediatamente a strofinarsi, per ripresentarsi maleodorante come prima davanti alla tenda. È passata la mezzanotte, e si procede al secondo lavaggio del cane, che viene poi chiuso subito nella tenda, onde impedirgli altri strofinamenti.

Il giorno seguente, gita in battello sul Bosforo. Il nome di questo stretto significa in greco antico “passaggio della vacca”. Secondo la mitologia greca, la bella sacerdotessa Io, insidiata da Zeus, venne trasformata in giovenca, e durante la fuga dalle ire della gelosa Era, moglie di Zeus, passò nelle acque di questo stretto tra Asia ed Europa, dandogli appunto il curioso nome.

Ci imbarchiamo su un battello che percorre il Bosforo avanti e indietro, partendo dal Ponte di Galata. Possiamo così ammirare, navigando, gli splendidi palazzi che sorgono sulle rive dello stretto. Il battello fa capolinea al paesino di pescatori di Beykoz, dove lo stretto si immette nel Mar Nero. Ci fermiamo a pranzare qui, in un piccolo ristorante. Il battello, dopo un’ora, ritorna indietro. Abbiamo portato con noi i cani, che hanno molto apprezzato.

Il giorno successivo è la volta dello splendido Palazzo del Topkapi. Sulla punta estrema della penisola di Stambul, dove nell’antichità si innalzava l’acropoli romana, Mehmet il Conquistatore decise di far costruire la residenza dei sultani ottomani: l’attuale Palazzo del Topkapi (o Serraglio). Ha svolto questa funzione dal 1478 al 1853, quando Abdulmecid trasferì la corte nel Palazzo del Dolmabahce. Nel 1924 Topkapi venne trasformato in un museo ed aperto al pubblico. In realtà è una vera e propria città circondata da mura, all’interno delle quali si succedono cortili, giardini, vasche, fontane, sale, saloni, chioschi e padiglioni.

Entrando nella prima cinta di mura, si incontra la chiesa di Santa Irene, una delle prime chiese cristiane innalzate dai bizantini. Attraverso l’”Orta Kapi” (porta di mezzo) si accede alla Piazza del Divan. Qui sorgono molti edifici interessanti: le enormi cucine e pasticcerie, dove ora sono esposte collezioni di porcellane cinesi tra le più preziose al mondo. Si tratta di doni, bottini di guerra o pezzi acquistati dai sultani. Un’altra sala contiene gli utensili da cucina utilizzati all’epoca imperiale. Due sale contigue espongono oreficerie e cristallerie fabbricate negli atelier imperiali. La Sala del Divan si trova di fronte alle cucine: qui il Gran Visir riuniva il Consiglio dei ministri. A due passi dalla Sala del Divan si trova l’Harem. Nel XVI° secolo, quasi 1.200 donne vivevano in questo strano mondo fatto di corridoi, anditi, stanzini, boudoir e saloni, bagni e camere, cortili e cortiletti. Le parti aperte al pubblico, con le loro maioliche, i marmi, i legni intagliati, i dipinti murali e i tessuti pregiati, danno solo un’idea della ricchezza di questi luoghi. Contrariamente a quanto si crede, la funzione dell’Harem non era solamente quella di recludere le donne del sultano. Esso costituiva l’insieme degli appartamenti privati dove il Gran Signore e la sua famiglia vivevano.

Negli edifici che circondano il cortile su tre lati sono custoditi, oltre al Tesoro, reliquie e oggetti sacri. La prima porta a destra si apre sulla sala dei costumi imperiali. La sala seguente, la più importante, è dedicata al tesoro vero e proprio, che annovera gioielli unici al mondo: ne nomino solo alcuni: il trono con baldacchino di Ahmet I°, in legno di noce, intarsiato di madreperla e adorno di smeraldi, rubini e turchesi, una culla rivestita d’oro e pietre preziose, i turbanti dei sultani tempestati d’oro e di gioielli, un trono indiano ornato da 25.000 perle, il famoso pugnale dal fodero d’oro, ornato da enormi smeraldi e brillanti, sul cui immaginario furto si incentrava il film “Topkapi”, poi cesti pieni di smeraldi grezzi grossi come uova, e uno splendido diamante da 86 carati, incorniciato da 49 brillanti, appartenuto ad un marajà indiano, poi alla madre di Napoleone, poi al governatore della Morea, prima di divenire di proprietà dei sultani ottomani. E ancora, un trono d’oro massiccio del peso di 250 chilogrammi, tempestato da 954 topazi, un cofano di cristallo di rocca tempestato di rubini e smeraldi, contenente una parte del cranio di San Giovanni Battista; al santo appartiene anche un braccio contenuto in un reliquiario d’oro. Si prosegue nella visita con la Sala delle Reliquie Sante e il Padiglione del Santo Mantello, splendidamente decorati con mosaici. Qui sono religiosamente conservate reliquie appartenute a Maometto: un dente, un pelo della barba, sciabole da combattimento, l’impronta del suo piede, il suo mantello di pelo di capra. Un muezzin salmodia tutto il giorno preghiere. Due passaggi conducono all’ultimo cortile del palazzo: ubicati in uno scrigno di marmo e giardini, rinfrescati dall’acqua delle cascatelle, i più bei chioschi dei sultani si trovano qui: il Padiglione di Baghdad e quello di Revan. Dalle terrazze del Topkapi si gode una indimenticabile veduta sul Bosforo, sul Corno d’Oro e sulla Torre di Galata.

Nel pomeriggio si va a fare shopping, al mercato che si trova nelle stradine nascoste dietro al turistico Gran Bazar. Acquistiamo due grandi piatti in rame, di quelli che in questi paesi utilizzano come tavolini, una volta forniti di appositi piedi. Poi un narghilè ed un’anfora di peltro tipo antico, il tutto per una somma irrisoria. Gli stessi oggetti, acquistati all’interno del Gran Bazar, vedrebbero immediatamente lievitare il loro costo. Facciamo comunque un visita al celebre mercato, chiamato dai turchi Kapalı Çarşı, molto bello da vedere, con i suoi vicoli oscuri pieni di negozi e di bancarelle che espongono merci di ogni tipo e di ogni colore, con il profumo degli incensi che aleggia nell’aria. A sud del Gran Bazar si erge la grande Colonna di Costantino, conosciuta anche come “Colonna bruciata”, eretta da Costantino il Grande nel foro che portava i suo nome. Oggi alta 34,50 metri, in origine alta ben 50 metri, sorreggeva una statua bronzea dell’imperatore, che era decorata con chiodi della croce di Cristo e con parti della croce stessa. Nel 1105, a causa di un terremoto, la statua precipitò e andò completamente distrutta. Nel 1779, un incendio la danneggiò, quindi fu rafforzata con gli anelli di ferro attualmente visibili; da qui il nome di “colonna bruciata”. Facciamo anche una capatina al Bazar Egiziano, per poi proseguire il giro alla vicina Torre di Galata; costruita dai Genovesi, dopo la conquista di Costantinopoli venne demolita della parte superiore e trasformata in prigione. Dall’inizio del XVIII° secolo venne utilizzata per avvistare i focolai d’incendio. Restaurata svariate volte, oggi contiene un ristorante, un caffè e un night club. Dall’alto il panorama è bellissimo; si vede tutta la città, i cui minareti svettano verso il cielo turchese; a sinistra il Bosforo, con le grandi petroliere che sfilano pigramente, a destra il Corno d’Oro con i suoi eleganti palazzi, al centro il Topkapi e dietro di esso, sullo sfondo, il Mar di Marmara. Istanbul è la città che amiamo di più, tra quelle che abbiamo visitato, per la sua prorompente bellezza ma anche e soprattutto per il suo fascino, dalla storia millenaria e dall’atmosfera misteriosa.

Ci concediamo una serata mondana in un locale dove offrono uno spettacolo di danza del ventre. La cena non è un gran ché, ma lo spettacolo merita; musiche etniche, brave e belle le ballerine.

Il giorno seguente si visitano i Musei Archeologici, che raggruppano il Museo dell’antico Oriente, il Museo delle antichità e il Museo della Ceramica.  I musei fanno parte dell’area del Topkapi. Il museo dell’antico Oriente custodisce reperti portati alla luce durante scavi effettuati nel XIX° secolo e fino all’inizio della prima guerra mondiale nei territori a quell’epoca dipendenti dall’immenso impero ottomano: iscrizioni fenicie, stele, statue e sarcofagi provenienti dall’Egitto, rilievi in mattoni smaltati provenienti dalla famosa Porta di Ishtar e dalla Via delle Processioni di Babilonia, steli, bassorilievi e sculture assire, altri reperti provenienti da Babilonia, da Hattuşa, da Assur.

Passiamo poi al Museo delle antichità: qui sono raccolti un numero incalcolabile di tesori archeologici greci, romani e bizantini. Il pezzo più famoso è lo splendido Sarcofago di Sidone, appartenuto ad un nobile fenicio. È in uno stato pressoché perfetto, in marmo bianco, tanto che si ha l’impressione che sia appena uscito dallo scalpello dello scultore; è fatto a forma di tempio greco, e tutt’intorno corrono bassorilievi con scene salienti della vita di Alessandro il Grande: una caccia al leone e una scena di battaglia. Cavalli e guerrieri si intrecciano nella foga del combattimento, tanto da sembrare animati da vita propria. Per anni è stato ritenuto, erroneamente, il sepolcro del grande macedone.

Altri bellissimi sarcofagi fenici, quasi tutti provenienti da Sidone, completano la raccolta, insieme a un  sarcofago licio ed uno egizio, appartenuto ad un generale, la cui mummia è esposta a fianco del sarcofago. Nelle altre sale, sculture arcaiche greche ed ellenistiche, tra le quali due bei ritratti di Alessandro, e moltissime statue romane con ritratti di imperatori e imperatrici, tra i quali Augusto, Tiberio, Marco Aurelio, Agrippina, Nerone, e una colossale statua di Giove. Un’ultima sala custodisce opere d’arte bizantine: frammenti di affreschi e mosaici, rilievi e sculture.  Visitiamo rapidamente anche il Museo della Ceramica, che contiene magnifici pezzi delle epoche segiuchide e ottomana. Il pomeriggio visitiamo l’antica Chiesa di San Salvatore in Chora, ora denominata Museo Kariye. Questo edificio in mattoni rossi, dominato da un minareto bianco, esternamente sembra a dir poco insignificante. Tuttavia, silenzioso testimone dell’apogeo di Bisanzio, conserva i mosaici più belli che l’arte bizantina abbia prodotto. La cupola che corona la parte centrale e i muri sono ricoperti di affreschi, considerati gli ultimo capolavori del rinascimento bizantino.

Il giorno seguente lasciamo la bellissima Istanbul, meta la Cappadocia. Il mattino, molto presto, Irene parte per tornare in Italia. Ha purtroppo finito le vacanze, deve rientrare a Milano per studiare. Dopo che Biagio e Marisa hanno accompagnato la figlia all’aeroporto, si parte. Durante il tragitto si fa sosta ad Ankara; questa città, l’antica Ancyra, capitale della Galazia, fu provincia romana. In epoca bizantina divenne una delle prime città cristiane d’Oriente. Era famosa per la tessitura del pelo di capra; queste capre erano di una razza dal pelo particolarmente setoso, le capre d’Angora. In seguito decadde, divenendo un borgo sperduto. Dopo la prima guerra mondiale, e il conseguente smembramento dell’impero ottomano, il dipartimento di Angora era l’unico rimasto. Qui Mustafà Kemal proclamò la prima grande Assemblea Nazionale turca e rese la città capitale. Adesso è una metropoli moderna e un po’ austera. Ci fermiamo brevemente per visitare il Museo delle Civiltà Anatoliche, perché contiene collezioni ittite eccezionalmente interessanti. Si parte dal periodo paleolitico, passando dall’età del bronzo, dall’epoca assira, ittita, frigia, urartea e infine classica. Oggetti di uso domestico, corredi funerari, tavolette cuneiformi si susseguono a splendidi bassorilievi, sculture, gioielli.

Riprendiamo la marcia. Lungo il tragitto, nel pomeriggio, breve sosta al grande lago salato, una immensa distesa bianca di sale; anticamente era in vero lago, poi l’acqua col tempo è evaporata tutta lasciando sul terreno una enorme quantità di sale. L’effetto che fa questo luogo è quello di trovarsi su un altro pianeta.

I cani corrono pancia a terra sulla lastra di sale. Scattiamo qualche foto rapidamente e ripartiamo. Verso sera, dopo circa 700 chilometri di strada percorsi, si arriva in Cappadocia. Questa regione di altipiani posti a più di 1.000 metri di altezza, nel centro dell’Anatolia, è stata creata da un tufo molto tenero, formato dall’unione di ceneri e fango emessi dai due vulcani Erciyes Dağı e Hasan Dağı. L’erosione provocata dallo scorrimento delle acque piovane e dal vento che si inabissa con violenza inaudita in questa valle, vero e proprio corridoio di accesso al mare per le correnti fredde delle colline anatoliche, ha creato così, a poco a poco, un paesaggio insolito, caotico e lunare, surreale. In mezzo a canyon, burroni e scogliere si innalzano strane guglie di roccia, che talvolta sembrano scolpite e si moltiplicano, si stringono le une alle altre e si allineano come gigantesche statue. Alcuni di questi coni sono talvolta sormontati da un blocco di roccia più dura, che l’erosione non ha ancora consumato e che sembra far loro da copricapo. Il tocco finale che fa acquistare a queste formazioni geologiche un carattere unico e fiabesco è costituito dalle abitazioni che sono state scavate al loro interno in tempi immemorabili. Tutto un mondo trogloditico si era qui organizzato in un’epoca in cui le comunità monastiche dovevano sfuggire alle persecuzioni e in cui i Bizantini temevano gli assalti degli Arabi. Le pitture rupestri che hanno lasciato in tutte le grotte sono di grande ricchezza storica e costituiscono una parte importante dell’arte cristiana in Oriente. Faremo campo a Göreme, il paese più centrale e forse più tipico della Cappadocia. La strada scende dall’alto, quindi ci fermiamo ad ammirare lo spettacolare panorama fornito dalla valle di Göreme e dai i cosiddetti “camini delle fate”, incredibili pinnacoli di tufo.

Ci fermiamo al Kaya Camping, che i nostri amici Biagio e Marisa hanno trovato spulciando riviste per camperisti. È un ottimo campeggio, situato su un terrazzamento del terreno che consente un panorama mozzafiato sulla valle sottostante. È molto pulito, c’è una bella piscina e un piccolo market.

Per cenare scendiamo all’incantevole minuscolo paesino, troviamo un locale tranquillo e gustiamo alcune specialità della cucina turca.

Il mattino seguente, si visita la valle di Göreme, ricca di suggestive chiese rupestri, scavate all’interno dei pinnacoli di tufo e splendidamente affrescate. Proseguiamo la visita con la valle di Zelve, a pochi chilometri da Göreme.

Zelve, antico villaggio trogloditico, si trova in fondo ad un anello roccioso custodito da una foresta di piramidi di terra sormontate da un blocco non eroso. Qui si sono succedute popolazioni cristiane e musulmane fino al 1956. Si percorrono corridoi e cunicoli scavati all’interno della roccia, armati di una torcia elettrica. In certi punti bisogna strisciare, in altri arrampicarsi. Un ragazzo del luogo ci fa strada in un tunnel completamente buio che porta da una parte all’altra della montagna. La prossima visita è la città sotterranea di Kaymaklו. La Cappadocia vanta numerose città sotterranee: le più famose sono Derinkuyu e, per l’appunto, Kaymaklו. Nel VII° secolo, gli arabi irruppero in Cappadocia. Nel XI° secolo, i Selgiuchidi si impadronirono di Cesarea e nel XV° secolo i Mongoli di Tamerlano invasero la regione. Sin dalle prime invasioni, gli abitanti costruirono sotto terra intere città, veri e propri labirinti di diversi chilometri, nelle quali si rifugiavano per sfuggire agli eserciti nemici. Kaymaklו è composta da 8 piani sovrapposti, quelli al momento scoperti, e comprende decine di sale, corridoi e scale. Vi sono ancora le pesanti mole di pietra che venivano fatte rotolare per proteggere le uscite principali di ogni livello, e il vasto camino di areazione che assicurava la ventilazione dell’insieme. 

Nel pomeriggio, passeggiata in mezzo ai “Camini delle fate”, curiosi pinnacoli con strani cappelli rocciosi in cima. I cani si divertono molto a correre in mezzo ai camini, rincorrendo gli uccellini. Poi si visita Avanos, famosa per le ceramiche lavorate a mano. Nelle grotte di tufo i vasai del paese hanno le loro botteghe, dove lavorano ancora artigianalmente la ceramica. Mostrano volentieri tutto il ciclo della lavorazione, dalla creta grezza sul tornio, ai forni di cottura, al disegno della decorazione, alla pittura del disegno e all’ultima cottura. Inutile dire che vi sono oggetti splendidi, con decorazioni così raffinate che è impossibile uscire da queste botteghe senza aver acquistato qualcosa. L’ultima visita, anche perché ormai la giornata volge al termine, è in un centro statale per la lavorazione dei tappeti, dove sono garantite la qualità e l’autenticità. Anche qui è possibile osservare il ciclo completo della lavorazione, dalla tintura delle lane, alla tessitura, al ricamo dei disegni. Contrariamente alla ceramica, quest’arte è prettamente femminile. I tappeti che ci vengono mostrati sono veramente bellissimi, ma i prezzi però sono piuttosto alti; negli anni precedenti io ed Enzo abbiamo già acquistato tappeti, qui in Cappadocia, in Egitto, Marocco e Tunisia, pertanto siamo ben riforniti. Biagio e Marisa vorrebbero acquistarne alcuni, quindi rintracciamo il negozio del quale ci eravamo serviti anni addietro, più economico del precedente. Lo troviamo, anche qui c’è un’ampia scelta. Dopo una difficile decisione, ne prendono due; a noi sembrano molto belli, anche se non siamo intenditori del genere.

Il giorno seguente visitiamo Uçhisar, delizioso paesino raggruppato attorno ad un picco roccioso perforato da mille cavità. Questa specie di torre crivellata fungeva un tempo da fortezza e accoglieva la popolazione in caso di pericolo. La cima della torre offe un panorama completo di tutta la regione dove le scogliere, le rocce accidentate e i burroni si tingono di rosa, blu chiaro o giallo a seconda dell’ora del giorno. Simile a questo, anche il paese di Ortahisar vanta un picco roccioso perforato da mille anfratti e coronato da una terrazza fortificata. Nel pomeriggio, visita a Ürgüp, dalle tipiche case, e Mustafapaşa, l’antica Sinasos, pochi chilometri da Ürgüp. Anche qui, eleganti case con verande colonnate, e una curiosa chiesa scavata nella roccia. Al ritorno, andiamo ad assistere ad un fantastico tramonto in un luogo segnalato appunto per il panorama. Nella luce rosso arancio del sole calante, i burroni e i pinnacoli di tufo assumono i colori più incredibili, dall’azzurro al verde, al rosa al rosso al giallo.

Il giorno seguente, si riparte. La meta è questa volta il Nemrut Dağו, la montagna nella catena dell’Antitauro dove sorge la colossale tomba di Antioco I° di Commagene, uno dei siti della Turchia definiti dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità. Dopo lo smembramento dell’impero di Alessandro, venne creata la provincia di Commagene, che andava dalla Cilicia all’Eufrate. Nel 62 a.C. Antioco I° salì al trono e  accentuò il carattere strategico di questa regione, con l’Impero Romano a ovest e il regno dei Parti a est. Nel 30 a.C. Antioco volle costruire un santuario che lo rendesse immortale: si tratta di un tempio gigantesco ornato da statue di dei, a più di 2.000 metri d’altezza, sul Nemrut Dağו, la cima “più vicina al trono celeste di Zeus”. È senza ombra di dubbio uno dei siti archeologici più interessanti e suggestivi al mondo. Arriviamo a Katha, dopo un’altra “tirata” da settecento chilometri. Katha è un villaggio posto ai piedi del Nemrut Dağו, un semplice paese dove le strade, tranne quella principale, non sono nemmeno asfaltate. Ora, grazie ai visitatori che vengono qui per vedere le zone archeologiche, sono stati costruiti alcuni alberghi e pensioni. L’hotel Zeus ha anche un campeggio, piccolo ma pulito e con una bella piscina. Ci fermiamo qui. Questa parte della Turchia viene chiamata dai suoi abitanti “Kurdistan”, anche se il Kurdistan non è al momento uno stato riconosciuto. I fiero popolo che lo abita ci tiene molto a mettere bene in chiaro la sua origine. Infatti puntualizzano sempre di essere “curdi” e non “turchi”.

Ci accordiamo con un autista per l’escursione al Monte Nemrut. Questa si effettua di solito per assistere al levare del sole, o al tramonto, quando le colossali statue che adornano la cima della montagna vengono colorate d’oro dai raggi del sole. Non ci fidiamo ad arrivare alla vetta con i nostri mezzi. Per vedere l’alba bisogna partire alle 02.00 di notte, quindi la strada è da percorrere al buio completo, ed è strettissima, dissestata, tutta tornanti e burroni; inoltre è completamente priva di “guard rail”. Quindi, onde evitare problemi, ci affidiamo ad un guidatore locale. Partiamo quindi dal campeggio circa alle 02.00, dopo un breve sonno, sempre in compagnia dei fedeli cani. La salita dura circa un’ora e mezzo. Si arriva con le auto fino ad un rifugio vicino alla vetta; l’ultimo tratto di sentiero è da percorrere a piedi. Ci inerpichiamo, raggiungiamo la cima. Nel buio pesto non si distingue molto, tranne uno splendido tappeto di stelle sulla nostra testa. C’è il basamento di un antico altare, e ci sediamo sugli scalini ad attendere l’alba. È anche parecchio freddo. Lentamente il sole si leva all’orizzonte, tra foschie colorate di viola, rosa, rosso, giallo oro. I primi raggi iniziano ad illuminare la montagna, e improvvisamente ci troviamo circondati da colossi di pietra. La cima del Nemrut Dağו è un cono artificiale alto 50 metri, di 150 metri di diametro, composto da milioni di pietre tagliate e smussate manualmente da antichi operai.

Sotto a questo tumulo pietroso, riposa Antioco I° di Commagene. Il suo sepolcro è tuttora inviolato, in quanto vani sono stati tutti i tentativi di trovarlo. Il tumulo è fiancheggiato da tre terrazze sulle quali vegliano statue giganti. Noi ci troviamo ora sulla terrazza orientale, dove cinque colossi seduti s’innalzano nella luce rossa dell’alba. I colossi, le cui teste, rovesciate dai fulmini e dai terremoti, giacciono al suolo, raffigurano Apollo, Tyche (dea della fortuna), Zeus, Antioco ed Eracle. Un grande leone di pietra, seduto, rimane perennemente a guardia dell’antico altare che fronteggia i colossi. Ci spostiamo verso la terrazza settentrionale. Molto rovinata, era un tempo la via processionale. Rimangono solamente un gigantesco leone ed un aquila a custodirne l’ingresso. La terrazza più bella è quella occidentale. Le statue, sempre sedute ed anche qui decapitate, sono conservate molto meglio rispetto alla terrazza orientale. Rimangono anche molti bassorilievi raffiguranti la genealogia del re, con gli antenati macedoni e quelli persiani. Fotografiamo Eolo seduto sulla testa caduta dell’aquila. Speriamo che Antioco non se la prenda!

Finita la visita, torniamo verso valle. Vi sono altri siti vicini da vedere. Cominciamo con il Tumulo di Karakuş, la tomba delle donne della famiglia reale di Commagene. Anche questo è un tumulo artificiale, circondato da quattro alte colonne (nell’antichità erano sei). In cima alle colonne erano poste delle statue. Di queste ora rimangono un’aquila e un leone. Proseguiamo con  il ponte romano sul fiume Chabinas (dove Eolo va subito a fare il bagno). Fu costruito durante l’impero di Settimio Severo; le quattro colonne che lo ornavano erano dedicate a Settimio Severo, alla moglie Giulia Domna e ai figli Geta e Caracalla. Ora ne rimangono solo tre, perché quella dedicata a Geta venne rimossa da Caracalla, dopo aver fatto assassinare il fratello e possibile concorrente al trono. Sulla zona domina dall’alto la grande e imponente fortezza di Yeni Kale, costruita da sultani mamelucchi. Ultima visita per l’antica Arsameia sul fiume delle Ninfe. Qui, inerpicati sul fianco di una collina, si possono ammirare bassorilievi raffiguranti Eracle, Mithra, Antioco. Una galleria sorretta da archi porta a una grande camera rupestre, ritenuta inizialmente la Tomba di Mitridate Kallinikos, padre di Antioco. Ora si pensa sia stato piuttosto un luogo di culto, dedicato forse a Mithra. Una galleria sotterranea si insinua all’interno della collina. Il suo scopo è tuttora un mistero. Dall’alto di Arsameia, si gode uno splendido panorama su tutta la regione.

Al ritorno dalla lunga e faticosa escursione siamo piuttosto stanchi, e facciamo un breve sonnellino sul camper; poi pranziamo a Katha, in una locanda molto spartana, dove non hanno nemmeno le posate (vanno a prenderle in casa da un vicino!!!) e partiamo in direzione sud, verso la Siria.

La tappa è a Şanlוurfa, chiamata anche, più semplicemente, Urfa. Le origini di questa città, a una ventina di chilometri dal confine siriano, risalgono al II° millennio a.C. Tappa importante sulla strada della Mezzaluna Fertile che portava dalle rive del Mediterraneo verso l’alta Mesopotamia, fu conquistata da Bizantini, Persiani, Arabi, Turchi e Crociati. Nonostante questo movimentato passato, conserva pochi resti interessanti. Si visitano vestigia di una fortezza crociata, e l’antica fonte Kallirhoe. Quest’ultima è per i musulmani un luogo sacro: narra la leggenda che qui si fermò Abramo (Ibrahim) durante il cammino da Ur verso la Terra Promessa. La gente del posto lo condannò a morire sul rogo, ma Dio decise di salvarlo, trasformando il fuoco in acqua e il legno della pira in carpe.

Una bellissima costruzione orientaleggiante racchiude la fonte, nella quale nuotano a centinaia le sopra menzionate carpe, tradizionalmente sacre. Nessuno può toccarle, perché si crede che chi fa del male ad uno di questi animali perderà la vista. Offriamo alle carpe il cibo che alcuni ambulanti vendono apposta per loro. Però i nostri cani attirano l’attenzione, e una guardia ci dice che dobbiamo portarli fuori, perché questo è un luogo santo (ricordiamo che per loro i cani sono “impuri”).

Facciamo una passeggiata per il centro della città, dove si respira già aria mediorientale, come il profumo delle spezie che proviene dal bazar; non è raro incontrare uomini vestiti con le tradizionali “jellaba”e “kefiha”, o donne beduine col viso ricoperto di tatuaggi.

È inutile dire che il nostro arrivo crea grande curiosità tra gli abitanti: il grosso camper, la moto, noi e soprattutto i cani sono per questi turchi quasi siriani, che non vedono mai turisti occidentali, motivo di interesse ed emozione. Infatti ci muoviamo per le vie di Urfa “scortati da capannelli di persone.

Ormai è sera, e poiché a Şanlוurfa non vi sono campeggi, ci fermiamo a pernottare per strada, tutti sul camper. Ripartiamo il mattino seguente in direzione ovest, per Konya, altra città santa dell’Islam. Arriviamo a Konya con un fantastico tramonto. È questa una bella città, tranquilla, non troppo grande, dalle origini molto antiche. La vicinanza delle numerose sorgenti che sgorgano alla base dei massicci vulcanici sul limitare interno del Tauro l’hanno fatta diventare oggi il principale granaio della Turchia. Anni fa c’era un campeggio a Konya; ora non c’è più, e ci chiediamo dove fermarci per dormire. Un ragazzo in motorino, al quale abbiamo chiesto indicazioni, ci fa strada fino ad una piazzetta in cima ad una piccola collina, in mezzo ad un parco pubblico, e ci spiega che il sindaco della città ha autorizzato i turisti con i camper a fermarsi in questa piazza. C’è anche una piccola fontana, che possiamo usare per lavarci. Ci sistemiamo, rinchiudiamo i cani in camper e ce ne andiamo a cena in un ristorante, poi facciamo quattro passi per la città. Ci sono molti parchi pubblici a Konya, che la impreziosiscono di aree verdi spesso carenti nelle città mediorientali. Il giorno seguente, dopo una nottata movimentata da Eolo che saltava sul letto (anche stanotte abbiamo dormito tutti in camper, ci sembrava sconveniente montare l’igloo nel bel mezzo di una piazza) e dal muezzin di una vicina moschea che nel cuore della notte intonava versetti del Corano, ci apprestiamo a visitare il maestoso Mausoleo di Mevlana, il principale sito di interesse della città. È questo l’antico convento dei dervisci danzanti. La sua alta torre rivestita di maiolica smaltata verde smeraldo, si erge al disopra della città. L’ordine dei dervisci (dalla parola persiana “darwich”, che significa “povero”), nato in Asia centrale dietro la spinta di saggi che disprezzavano la ricchezza, la sofferenza e l’ambizione, si ramificò poi in diverse branche. Vestiti con una lunga tunica chiusa fino al collo, con in testa un alto cappello di feltro rosso, i dervisci danzano ruotando su se stessi al suono dei flauti e dei timpani. L’antico convento, oggi trasformato in museo di tappeti e turbanti, si visita in un’atmosfera quasi religiosa. Vi sono molti pellegrini di tutti i paesi musulmani che vengono qui a raccogliersi e a pregare davanti al cenotafio di Mevlana, poeta mistico che fondò l’ordine religioso dei dervisci danzanti. La moschea e la sala del Samà sono state costruite da Solimano il Magnifico. La seconda, nella quale i dervisci effettuavano la loro danza rituale, racchiude strumenti musicali, tappeti e bellissime lampade da moschea di cristallo. Nella moschea ci sono splendidi tappeti e una bella collezione di corani miniati.

Il mattino seguente siamo nuovamente in strada, verso sud e il Mar Mediterraneo. La strada che percorriamo passa attraverso la catena del Tauro, con paesaggi di montagna che ricordano la Svizzera, mentre ci siamo lasciati alle spalle una città orientale e grandi distese steppose. Che paese incredibile la Turchia!

Sbuchiamo sulla costa a Manavgat,  verso il tramonto. Qui troviamo un bel campeggio, il “Green Park”, con una grande spiaggia dove facciamo fare il bagno ai nostri amici con la coda, che si divertono a giocare con le palline e a rotolarsi nella sabbia. Il clima di questa zona però è molto umido, per nulla piacevole.

La nostra moto, come sempre del resto, non ha finora accusato il minimo problema.

Il mattino seguente, andiamo con un battello fluviale a vedere le famose cascate del fiume Manavgat Çayו. Sarebbero belle, peccato per l’apparato altamente turistico allestito all’ingresso: bancarelle, bar, locali, chioschi di ogni tipo, confusione massima e venditori invadenti.

Si riparte. La prossima tappa è a Side. La città  di Side, cinque chilometri a sud ovest di Manavgat, affacciata sul mare di una penisola, è circondata da due splendide spiagge. Greca nel VII° secolo a.C., fu mercato di schiavi e covo di pirati. Conquistata dai romani, la città andò poi in declino fino al completo abbandono, quando i suoi monumenti vennero inghiottiti dalle sabbie. Da quando emigranti turchi provenienti da Creta vi si stabilirono, le antiche vestigia vennero un po’ alla volta riportate alla luce. Una grande teatro, capace di 20.000 persone, ancora in ottimo stato, sorge proprio al centro dell’odierno paese. I resti di un tempio di Atena proiettano verso il cielo, proprio sulla spiaggia, le snelle colonne corinzie. Imponenti i resti di un ninfeo, di un complesso termale e di un’agorà. Questi ruderi, unitamente a tratti delle antiche mura della città, convivono malamente con le abitazioni, gli alberghi e i locali cresciuti a dismisura intorno a loro negli ultimi anni. Infatti la cittadina è soffocata dal turismo di massa, nel senso più negativo che si possa dare al termine: tranne i resti antichi, non si trova nulla di tipicamente turco a Side, ma solo prodotti ad uso e consumo dei turisti: qui trovi pizza, hamburger, wurstel con i crauti, ma la cucina turca non si sa cosa sia.

Di nuovo in sella, nuova rapida sosta ad Aspendos, per la visita del bellissimo teatro di epoca romana. L’antica città di Aspendos fece parte del regno di Pergamo. Di essa rimane solo il teatro, il meglio conservato tra tutti i teatri romani; vi si possono ammirare ancora intatti la cavea, completa ed unica nel suo genere, con una galleria superiore ad arcate, l’orchestra, con ancora la pavimentazione originale, e la scena, ricca di colonne e nicchie. Ripartiamo per un’altra rapida visita, la vicina Perge. Anche qui si ammirano un bel teatro e un grande stadio, il meglio conservato di questa regione, con le gradinate ancora intatte. Due porte monumentali consentono l’accesso alla città, dove sono visibili strade porticate, un bel ninfeo e un grande edificio termale.

Nuova sosta vicino ad Antalya, per visitare il sito archeologico e parco naturale di Thermessos. Bisogna inerpicarsi in cima ad un sentiero sul monte Güllük: in mezzo alla fitta vegetazione e ad un paesaggio selvaggio appaiono le rovine dell’antica e misteriosa città, che nemmeno Alessandro Magno seppe conquistare. Divenuta prospera e fiorente in epoca romana e bizantina, fu in seguito completamente abbandonata. La vegetazione fitta del bosco ha parzialmente ricoperto i ricchi resti della città, che appaiono a tratti, inquietanti, tra gli alberi e gli arbusti. Rimane il ginnasio, l’agorà, l’odeon, i templi di Artemide, la stoà di Attalo. Molte tombe rupestri e sarcofagi si incontrano in mezzo al bosco, ma il pezzo veramente forte è il teatro, non in buono stato ma in una posizione panoramica invidiabile, a picco su un precipizio. Vale la pena sedersi sulle gradinate della cavea in silenzio, accompagnati solo dallo stormire delle foglie degli alberi, e sembrerà di balzare indietro nel tempo: potremmo vedere gli attori declamare i versi di Euripide e Sofocle, e udire gli applausi del pubblico. Questo luogo, di grandissima suggestione, è uno dei tanti al di fuori degli itinerari classici, pertanto gli unici visitatori siamo noi ed un gregge di capre.

Infine, a sera, esausti, arriviamo a Phaselis, dove troviamo un campeggio un po’ selvaggio, in una pineta; ha una bella spiaggia, dove facciamo un bagno ristoratore, noi e i cani. Facciamo il campo e ci cuciniamo la cena.

L’indomani visitiamo l’antico sito di Phaselis, che si trova all’interno di un parco naturale. Abbandonata da secoli alla sua solitudine, natura e vestigia dell’antichità si uniscono in perfetta armonia: la vegetazione, il cielo e il mare formano uno scrigno verde e azzurro attorno al bianco delle rovine. Fondata nel VII° secolo a.C. da coloni di Rodi, subì l’egemonia persiana poi l’autorità di Alessandro Magno, prima di passare sotto la dominazione dei Tolomei d’Egitto, per poi andare a poco a poco in declino. Questa bella penisola univa tre porti, dei quali si possono vedere le fondamenta dei moli. Un largo viale lastricato all’ombra dei pini, tuttora conservato, collegava il porto principale di nord est con il porto sud occidentale. Il piccolo teatro si appoggia sul versante nord occidentale dell’acropoli. Sono rimaste una quindicina di file di gradinate e la scena, sparse in mezzo alla fitta vegetazione. Sono ancora visibili tratti degli acquedotti. Phaselis è affacciata su un mare da sogno, caldo e cristallino. Ci attardiamo fino a pomeriggio in questa oasi, facendo bagni e prendendo il sole, per poi spostarci alla vicina Olympos. Fondata nel III° secolo a.C., anch’essa fu un porto di mare, facente parte della Confederazione Licia. I resti visibili sono scarsi, ma la località è pittoresca. Su una bellissima spiaggia di ciottoli, si affacciano rovine di una necropoli, di un tempio e di un piccolo teatro. A Olympos è legato il mito della Chimera, che divorò l’eroe Bellerofonte. Viene chiamato “Chimera” un fenomeno naturale che si verifica in un punto preciso della montagna: prodotti da un misto di gas naturali ancora sconosciuti, dalla viva roccia scaturiscono piccoli fuochi. Alla fine di un ripido sentiero che si inerpica sul monte, accanto alle rovine di una chiesa bizantina, si possono osservare questi fuochi, che ardono spontaneamente da secoli. Fonti antiche riferiscono che nel passato i fuochi della “Chimera” erano visibili, di notte, fin dal mare, mentre adesso l’intensità di queste fiamme è ridotta, rispetto all’antichità. Il paese di Olympos, poche casette e qualche modesta pensione sparsi tra una fitta vegetazione sulla riva di un piccolo fiume, che si getta nel mare nella spiaggia delle rovine, meriterebbe una sosta di almeno un giorno.

Dopo la tappa riposante di Phaselis, si riparte per la prossima meta, sempre in direzione ovest: Üçağiz, di fronte all’isola di Kekova. Per strada si sosta a Myra, per la visita del sito archeologico. Myra, che faceva parte anch’essa della Confederazione Licia, dopo la dominazione romana divenne un’importante centro del cristianesimo e in seguito Vescovato di San Nicola, che qui era nato. Le frequenti piene del fiume Myros, che inondavano la città e la trasformavano in una palude nauseabonda, unite ai terremoti e alle invasioni degli arabi, finirono per far cadere nell’oblio l’illustre Myra. Si visita un bel teatro di epoca romana, dalla cavea tagliata nella roccia. In cima alla vetta rocciosa a strapiombo sul teatro si estende l’acropoli. Tagliate nella collina stessa si possono ammirare, ma sono difficilmente raggiungibili per l’altezza, alcune belle tombe rupestri, costruite ad imitazione delle antiche abitazioni licie. Tornando al villaggio di Demre, a pochi passi da Myra, si può visitare la chiesa di San Nicola, strano insieme architettonico di stile composito. Narra la leggenda che San Nicola, (San Nikolaus/Santa Claus, ovvero Babbo Natale) una notte, passando sotto le finestre di tre ragazze, apprese che esse erano troppo povere per avere una dote e potersi sposare. Allora San Nicola donò loro tre borse piene d’oro. Da questa leggenda è nata la consuetudine di fare regali nella notte di San Nicola, ora identificata col 25 dicembre.

La chiesa venne costruita sulla tomba del santo. Le sue fondamenta risalgono al IV° secolo. Nel 1034 la flotta araba attaccò la città e distrusse la chiesa. Venne ricostruita; nel XIX° secolo alcuni russi elevarono sul luogo un monastero in onore del santo, patrono della Russia. Nella chiesa è visibile una tomba con due statue giacenti, nella quale sembra siano state racchiuse le reliquie di San Nicola fino al 1087, data in cui mercanti italiani le avrebbero trafugate per portarle nel loro paese, Bari.

Ripartiamo, ed arriviamo a Üçağiz. È un minuscolo e poetico paesino nella Licia, dove i pochi abitanti allevano polli negli antichi sarcofagi che hanno in giardino, dove non ci sono strade asfaltate, dove le donne ricamano a mano foulard e parei da vendere ai rari turisti, e dove gli uomini vivono di pesca in inverno, e portando in giro in barca i visitatori d’estate. Sull’isola di Kekova, di fronte a Üçağiz, c’era una città bizantina, ora sommersa dalle acque cristalline del mare. Con uno dei pescatori del luogo andiamo a visitarla: il pescatore ha applicato al fondo di un secchio un vetro, e immergendolo in acqua si vede abbastanza bene il fondale marino: ci sono parecchi cocci e pezzi di anfore antiche. Qui è rigorosamente vietato immergersi, per timore che vengano asportati reperti archeologici.  Più lontano però, dove è consentito, ci tuffiamo con pinne  e maschere nell’acqua calda e trasparente. Il nostro pescatore ci porta a visitare due grotte e alcune splendide insenature assolutamente selvagge, raggiungibili solo in barca. Per pranzare ci fermiamo in una di queste insenature, dove, all’ombra di una capanna di frasche, alcune donne cuociono su una lastra di ferro appoggiata in terra il “pankake”, sorta di sottile sfoglia ripiegata e imbottita di formaggio. Sempre giungendovi in barca, anche perché non c’è altro mezzo, visitiamo un paesino costituito da alcune casette ed un castello diroccato in cima alla collina. Dall’alto degli spalti si gode un panorama splendido di questo paradiso incontaminato. Dal mare emergono alcune tombe licie semisommerse. Qui non ci sono campeggi, né alberghi; al massimo si può trovare da affittare qualche camera. Infatti io, Enzo e Eolo ci sistemiamo in una cameretta che ci viene fornita dal pescatore che ci ha portato fuori in barca, mentre Biagio e Marisa parcheggiano il camper nella piazzetta del paese, praticamente sul mare. Il giorno seguente, a malincuore, si riparte. I giorni di vacanza sono sempre meno, e i posti da vedere ancora tanti.

Facciamo una breve sosta a Kash, pochi chilometri a ovest di Üçağiz, grazioso paese di pescatori rannicchiato contro la montagna, le cui vecchie case greche sono ornate da pittoreschi balconi di legno, e dove i sarcofagi lici riposano sotto gli olivi, in mezzo alle strade del paese. Un teatro di epoca ellenistica, tagliato nella roccia, ha come sfondo della scena il mare. Dietro di esso, alcune tombe licie e sarcofagi di epoca romana, sulla spiaggia e nel mare, si affacciano sullo scenario spettacolare della Costa Turchese, di fronte all’isola greca di Kastellorizo. Questa sperduta isola, la più remota delle isole greche, è divenuta improvvisamente famosa in tutto il mondo grazie al film premio Oscar “Mediterraneo” di Gabriele Salvatores. Non abbiamo purtroppo tempo sufficiente per visitarla, e proseguiamo il nostro viaggio.

Ci fermiamo a Patara, un tempo principale porto della Licia. Ora i resti della città sono parzialmente inghiottiti dalla sabbia, come il grande teatro che sorge proprio sulla splendida spiaggia. La spiaggia di Patara, dove ci fermiamo a fare un bagno, è agibile solo di giorno. Infatti questa è una delle zone protette dove nidificano le grandi testuggini marine conosciute come “Caretta Caretta”. Le testuggini vengono di notte a deporre le uova; I piccoli, quando escono dalle uova, corrono verso il mare. Non devono quindi essere disturbati in alcun modo. Dopo un rapido sguardo al teatro di Letoon, piuttosto rovinato, ci fermiamo a visitare le rovine di Xanthos, che fu capitale della Licia. Anche qui è rimasto un grande teatro, al momento in via di restauro. Sulle gradinate del teatro, Eolo inizia a dare la caccia a uno sparuto gruppetto di capre, grandi comunque il triplo di lui, mentre noi continuiamo la visita. A ovest del teatro, tre monumenti funebri si innalzano: il più famoso è il “Pilastro delle Arpie”, i cui bassorilievi originali in marmo, raffiguranti per l’appunto le Arpie, mostri alati con corpo di uccello e testa di donna, furono trafugati dagli inglesi ed ora fanno bella mostra di sé al British Museum. Gli originali sono stai sostituiti da copie in cemento. Vi sono anche i resti dell’agorà e di una vasta necropoli, le cui tombe sono sparse tra gli ulivi della collina.

Una volta convinto Eolo a mollare le improbabili prede, ripartiamo per fare un’altra sosta a Fethije, l’antica Telmessos, oggi cittadina balneare rannicchiata nel fondo di una bella rada, protetta dai venti e dalle tempeste da una corona di isole. Le sue tombe rupestri scavate nella roccia sopra la città, e i suoi sarcofagi lici dimenticati sui marciapiedi, sono tra i meglio conservati. Alcune di queste tombe sono scolpite nello stile dei templi greci, con frontone, portico e cornicione.

Infine, verso sera, si giunge a Dalyan. Questo delizioso paesino, affacciato sul fiume Dalyan Çajו, offre numerosi motivi di interesse. Possiede una splendida spiaggia, costituita da una lunga lingua di terra, con alle spalle il delta del fiume, ed è raggiungibile solo in barca. Anche questa spiaggia è un oasi di ripopolamento delle Caretta Caretta. Si visitano le suggestive rovine dell’antica Kaunos, su un isola in mezzo al delta, anch’essa raggiungibile solo in barca. A Kaunos c’è un grande teatro, sulle cui gradinate sono cresciute, durante i secoli di oblio, alcune querce. Ci sono i resti di un vasto complesso termale di epoca romana e, accanto, quelli di una basilica cristiana e di un tempietto. Il tutto nel bellissimo scenario naturale del lago, un tempo l’antico bacino portuale, oggi senza più sbocco sul mare. Altro motivo di interesse, le sorgenti termali. Anche qui si arriva solo in barca. Ci si cosparge di fango nero, ci si immerge nell’acqua caldissima della sorgente, e quindi si fa una doccia finale con acqua fredda. Il nostro campeggio, l’unico del paese, è molto piccolo, ma è dotato anche di alcuni bungalow; io, Enzo e Eolo ne premdiamo uno. Il campeggio è affacciato sul fiume, sulla cui riva opposta, nella parete della montagna, a grande altezza, sono scavate tre sorprendenti tombe rupestri. La sera le tombe, che si specchiano sul fiume, vengono illuminate da fari gialli, che creano un effetto estremamente suggestivo. Un particolare simpatico: tutte le mattine, puntualissime, alcune ”Caretta Caretta” vengono ad affacciarsi dall’acqua al piccolo molo di legno del campeggio.  Le hanno abituate a mangiare i fichi prodotti da un albero che cresce proprio sul fiume, ed esse aspettano qualche campeggiatore che gentilmente glie ne getti qualcuno in acqua. Queste testuggini hanno gusti alimentari evidentemente raffinati, perché se proviamo a offrirgli pane o biscotti, rifiutano sdegnosamente; accettano solo fichi. Quando partiamo da Dalyan, passiamo velocemente da Bodrum, l’antica Alicarnasso. Qui sorgeva il celebre “Mausoleo”, una delle sette Meraviglie del mondo antico. Esso consisteva nel monumento funerario del governatore della Caria Mausolo, eretto in suo onore dalla moglie e sorella Artemisia II^; con lui, il termine “mausoleo” entrò nei dizionari di tutto il mondo. Agli inizi del XV° secolo, Alicarnasso venne occupata dai Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni, provenienti da Rodi, che iniziarono la costruzione di una fortezza sull’estremità della penisola, il castello di San Pietro. Per la realizzazione di quest’opera, i Cavalieri utilizzarono materiali provenienti dal Mausoleo, crollato, pare, in seguito ad un terremoto.  Bodrum oggi è una ridente cittadina di casette bianche, disposte a semicerchio intorno al porto. Riprendiamo la strada. La prossima e ultima tappa è Kuşadasו, dove arriviamo al tramonto. Rimarremo fermi qui qualche giorno, perché la sua posizione ci permetterà di visitare parecchi luoghi senza più spostare il campo. Non molti anni or sono, Kuşadasו era un grazioso villaggio di pescatori, con un caratteristico bazar. L’espansione del turismo l’ha resa purtroppo una vasta città, le costruzioni si allargano a macchia d’olio sulle colline circostanti, il bazar è diventato una commerciale trappola per turisti. Per fortuna troviamo un campeggio fuori città, dall’aspetto un po’ abbandonato ma molto tranquillo: inoltre c’è un ristorante dove si mangia molto bene, con una bella terrazza proprio sul mare, e un piccolo molo dal quale si possono fare bagni nel mare limpidissimo. Il giorno seguente, si parte in direzione est, tornando verso l’interno della Turchia, per la visita di Pamukkale, che in turco significa “castello di cotone”. Questo luogo, una delle mete turistiche più visitate dell’intera Turchia, è un ambiente naturale eccezionale. L’acqua calda satura di carbonato di calcio, che sgorga dalla montagna, ne ha scolpito il fianco, formando una gigantesca cascata di vasche turchesi, con le pareti di un bianco accecante. A qualsiasi ora del giorno, il sole orna questo capolavoro della natura con i colori più stupefacenti. Negli ultimi anni è stato deciso, per preservare questo luogo, di chiudere alternativamente, a seconda della stagione, le fonti di acqua termale, quindi molte delle vasche si presentano vuote, rispetto a qualche anno fa quando traboccavano di turchese acqua calda. Il luogo comunque è soffocato da maree di turisti scaricati da traboccanti pullman.

Subito alle spalle delle cascate, sorgono le rovine dell’antica Hierapolis, fondata da Eumene II° re di Pergamo; qui troviamo molti meno turisti. Divenuta romana, distrutta varie volte dai terremoti, nel II° e III° secolo conobbe il suo apogeo come città termale. Anche qui c'è un grande teatro romano, in ottimo stato, un grande ninfeo monumentale, un tempio di Apollo ancora parzialmente scavato, una vasta necropoli, estesa per più di 2 chilometri. Migliaia di tombe, sarcofagi, monumenti funerari si succedono in mezzo alla vegetazione. Una tomba, a forma di casa, è stata costruita dentro una delle vasche calcaree. Una porta a tre archi precede una bella via colonnata, al cui recupero ha lavorato una missione archeologica italiana.

È stato costruito recentemente un museo archeologico nel sito, molto ben strutturato, utilizzando le antiche terme romane. Le acque calde di Pamukkale vengono tuttora impiegate a scopo termale; a fianco delle terme romane, sorge uno stabilimento  moderno. Ritornando verso la costa, ci fermiamo a visitare Aphrodisias, la città romana che il governo turco decise di riportare alla luce nel 1959, seppellita sotto il villaggio di Geyre, a circa 500 metri di altezza. La stupefacente città, che un tempo doveva avere una superficie di più di 500 ettari, risorse così dall’oblio. Il culto di Afrodite, madre universale e onnipotente, simbolo della fertilità, si celebrava qui sin dal VII° secolo a.C., tuttavia la città conobbe la celebrità solamente in epoca romana. Più tardi però i Bizantini, desiderosi di cancellare ogni traccia di questo rito licenzioso, gli posero fine, ribattezzando la città “Stavropolis”, “città della croce”. Decadde e vi venne costruito un villaggio, Geyre. Le opere di riesumazione sono tuttora in corso, e certe parti del sito archeologico per questo motivo non sono aperte al pubblico. Ciò che si può visitare è comunque grandioso: i propilei, un grande stadio, nato per le gare di atletica e in seguito utilizzato per i combattimenti di gladiatori, un bellissimo tempio di Afrodite, un odeon ottimamente conservato, il grande teatro, anch’esso in ottimo stato. Si conservano i seggi in marmo riservati alle personalità di spicco della città: ovviamente, non resistiamo alla tentazione di sederci anche noi e di fotografarci a vicenda. All’uscita dal sito, si visita un interessante museo, che contiene i numerosissimi reperti ritrovati durante gli scavi. I cani ci hanno sempre seguiti nelle nostre visite archeologiche, saltellando tra i capitelli e le gradinate degli antichi teatri.

La sera, al rientro a Kuşadasו, ci concediamo una follia: cena a base di aragosta da Alì Babà, noto ristorante specializzato in piatti di pesce. Naturalmente, una cena così in Italia ci costerebbe almeno il triplo.

L’indomani ci spingiamo a nord per visitare Pergamo.  Pergamo divenne famosa al tempo in cui Lisimaco, generale di Alessandro, ne divenne il signore. Ai tempi di Roma, Pergamo allargò ancora il suo territorio e divenne uno dei più grandi centri artistici, intellettuali e commerciali. Attalo III°, celibe e senza figli, lasciò il regno di Pergamo in eredità a Roma; così, dopo 150 anni, essa venne incorporata nell’impero romano e ridivenne una semplice città. Il suo declino avvenne in concomitanza con quello dell’impero romano. Il sito è molto vasto. Nella parte bassa della città, si visitano la via Sacra, il tempio di Asclepio, i Propilei, la biblioteca, un piccolo e bel teatro di epoca ellenistica. Poi si sale all’acropoli. L’opera architettonica più notevole è l’enorme teatro, che accoglieva 15.000 spettatori. Costruito arrampicato sul fianco della collina, a strapiombo sulla valle, è considerato il teatro più a picco del modo. In cima all’acropoli, un elegante tempio di Traiano, in restauro, innalza le candide colonne corinzie verso il cielo turchese. Poi i resti della biblioteca, quella famosa nell’antichità per possedere 200.000 rotoli e documenti. Su una terrazza a sud del teatro, sorgeva l’Altare di Zeus, noto anche come Ara di Pergamo. Ne sono rimaste solo le fondamenta; l’altare, completamente smontato, è stato ricostruito a Berlino, all’interno del Museo Archeologico.

Non era possibile venire in Turchia senza visitare le omeriche rovine di Troia, non molto distanti da Pergamo. Scoperta dall’archeologo tedesco Schliemann nel XIX° secolo, Troia comprende 9 strati sovrapposti, per una profondità pari a 16 metri, che vanno dal IV° millennio a.C. all’epoca romana. Dei 9 strati, quello ritenuto corrispondente alla Troia omerica è il VII°, che risulterebbe distrutto da un incendio. Le rovine del luogo possono risultare deludenti e poco esplicite, pertanto è necessario ricorrere all’immaginazione; dall’alto di quelle che potevano essere le Porte Scee si riuscirebbero a vedere le tende di Agamennone e Menelao, Achille che corre con il suo cocchio trainato da cavalli parlanti intorno alle mura di Ilio, Patroclo che si esercita con il giavellotto, Odisseo e Aiace che giocano a dadi, per ingannare l’attesa del decennale assedio.  È stato ricostruito il cavallo in legno, a grandezza naturale; vi si può entrare tramite una scaletta di legno nella pancia, e dall’alto la vista spazia sul sito archeologico e su tutta la pianura. Prima di tornare a Kuşadasו, sulla via del ritorno da Troia facciamo una rapida digressione verso Assos. Questo è un piccolo villaggio con poche case sparse intorno al sito archeologico; i resti, relativi ad un tempio dorico dedicato ad Athena e alle mura difensive della città, sono modesti, ma il panorama che si gode dall’alto dell’acropoli, seduti sulle colonne rovesciate del tempio di Athena, è superbo. Le acque del golfo di Edremit e del Mar Egeo si stendono a perdita d’occhio sotto di noi, e si scorge perfettamente l’isola greca di Lesbo, proprio di fronte.

Il giro dell’indomani prevede la visita di Sardi, capitale dell’antica Lidia, posta sulle rive del fiume Pactolo, le cui sabbie aurifere resero ricchi i suoi abitanti e il loro re Creso. C’è un bellissimo Ginnasio, di epoca romana, accanto ad una sinagoga del IV° secolo a.C. Attraversando la strada, lungo il letto del fiume Pactolo, sorgono le rovine del tempio di Artemide, di ordine ionico, di cui rimangono belle colonne e fini sculture. Questo sito si trova in una bellissima posizione panoramica, e la visita risulta particolarmente suggestiva perché non c’è nessun altro oltre a noi, gli unici suoni udibili sono quello del vento caldo che sibila tra le colonne e lo stormire degli uccelli in volo.  Nel pomeriggio si ritorna a Kuşadasו, per fare una passeggiata al bazar, molto turistico. Ovviamente, ci lasciamo tentare dai tanti oggetti esposti e dai prezzi convenienti, e acquistiamo diversi souvenir: stoffe, narghilé, piatti e anfore in metallo sbalzato. Verranno caricati sul camper di Biagio, con grande sollievo del Tenerè.

L’indomani si visitano Didyma, Mileto , Piene. Si comincia col colossale tempio ellenistico di Apollo a Didyma, sede nell’antichità di un famoso oracolo. Distrutto da Dario, re di Persia, venne ricostruito dopo la vittoria di Alessandro Magno sui Persiani. Moltissimi pellegrini si recavano qui per consultare l’oracolo di Apollo. Il santuario declinò con l’avvento del Cristianesimo. Nonostante sia rimasto parzialmente incompiuto e in parte distrutto da un terremoto, i resti del tempio sono di un’imponenza impressionante. Sono rimaste 3 colonne delle 108 del doppio colonnato che lo circondava, però si può ancora ammirare le base delle 8 colonne centrali della facciata orientale. Le gigantesche teste di Medusa, di cui si vede un bellissimo esemplare all’entrata della zona archeologica, provengono dal fregio del colonnato esterno.

La seconda visita della giornata è Mileto. Fondata dai greci, anticamente sorgeva su una penisola che avanzava per più di 2 chilometri nel Golfo di Latmos, e grazie ai suoi 2 porti, divenne la più grande metropoli tra le 12 città della confederazione ionia. Il santuario di Dydima era di sua proprietà. Anch’essa distrutta dai persiani nel corso della rivolta ionica, nel 494 a.C., risorse solo dopo la liberazione da parte di Alessandro delle città ioniche dall’autorità persiana. Divenuta romana, vi soggiornarono anche Giulio Cesare, Marco Antonio e San Paolo. Decadde poi in seguito all’interramento dei suoi porti, dovuto ai depositi alluvionali del fiume Meandro. La zona archeologica è molto vasta. Vi si possono ammirare un grande e bel teatro, uno dei migliori esempi di teatro greco-romano esistenti; le gradinate e i passaggi a volta sono ben conservati, e davanti alla scena si può ancora vedere la loggia imperiale fiancheggiata da due colonne. Inoltre, possiamo vedere il bouleuterion, i resti di un ninfeo, l’agorà nord e le terme di Faustina. Molto rovinati ma suggestivi i due leoni di pietra, che nell’antichità stavano seduti all’ingresso di uno dei due porti, e adesso emergono dalla terra tra i cespugli di rovi. Dopo un pranzetto a base di pesce in uno sperduto ristorante sul mare, nel quale siamo gli unici avventori, ci apprestiamo alla terza tappa della giornata, Priene. Le rovine di questa città, descritta come una delle più belle dell’antichità, sorgono aggrappate ad una cresta montuosa che domina la valle. Anch’essa possedeva due porti ed occupava una penisola, e anche qui il fiume Meandro ne ha provocato l’interramento. Quello che una volta era mare ora è una grande pianura coltivata. Come Mileto, venne distrutta dai persiani e ricostruita da Alessandro, per passare poi sotto il regno di Pergamo e infine sotto Roma. Le colonne ioniche del tempio di Athena si stagliano fiere contro alla roccia della montagna, mentre dalle gradinate di un piccolo ma ben conservato teatro si può vedere tutta la pianura fino al mare. Questi siti sono alcune tra le tappe obbligate dei tour organizzati, e infatti incontriamo diversi gruppi di turisti.

Durante il nostro viaggio, che è giunto ormai al termine, abbiamo incontrato diversi tipi di turisti: la maggior parte sono quelli dei tour organizzati, poi c’è una piccola parte di quelli “fai da te”, che sono arrivati in aereo e hanno noleggiato un’auto; più numerosa è la famiglia dei camperisti, infatti ne abbiamo incontrati parecchi, per lo meno fino alla Cappadocia. Con rammarico devo dire che dei motociclisti ne abbiamo incontrato uno, tedesco e solitario, nel campeggio in Cappadocia, poi ….. nessun altro.

Sono gli ultimi giorni di vacanza, abbiamo visto tantissimi luoghi splendidi, ma per poterlo fare abbiamo dovuto andare sempre di corsa, percorrendo grandi distanze, perché la Turchia ha un territorio vastissimo. Biagio, che non era abituato a queste maratone, i primi giorni era sfinito e ci chiedeva come facevamo noi, in moto, a non essere a pezzi. Però alla fine del viaggio è rimasto veramente entusiasta di tutto ciò che ha visto, anche se a prezzo di tanta fatica.

Per ovvi motivi di tempo, non abbiamo potuto visitare la parte più a est, la zona del Lago di Van, Dogubayazit e il Monte Ararat, che riserveremo per uno dei prossimi viaggi, forse già nel 2002. I nostri cani ci hanno accompagnato quasi sempre nelle visite dei siti archeologici, saltando allegramente da un rudere ad un altro.

Il penultimo giorno di permanenza in Turchia è dedicato al relax totale. Andiamo al parco naturale che si trova nella penisola di Dilek, ad un trentina di chilometri da Kuşadasו.

Dopo esserci fermati in un paesetto, dove abbiamo trovato un mercatino per fare la spesa per il pranzo, entriamo nel parco, dove sono indicate sette spiagge diverse; ne scegliamo una, ci fermiamo. La spiaggia è piccola, ma il luogo è appartato e tranquillo, e l’acqua splendida. I cani si tuffano continuamente, come noi. A mezzogiorno prepariamo un pranzetto sul camper. Rimaniamo qui fino all’orario di chiusura del parco, poi ce ne torniamo sconsolati al campeggio, con la tipica depressione da fine vacanza che incombe.

L’indomani è veramente l’ultimo giorno: al mattino presto, visita del sito archeologico più vasto e spettacolare di tutta la Turchia, Efeso, che sorge accanto al paesino di Selçuk. Efeso, passata dalle mani di Creso, re di Lidia, a quelle di Ciro, re di Persia, si sviluppò e si arricchì sempre più, e il suo famoso tempio di Artemide, un’altra delle sette meraviglie del mondo, ancor più abbellito. Il tempio venne incendiato da un pazzo, Erostrato, nel 356 a.C., l’anno della nascita di  Alessandro, e venne in seguito da lui ricostruito. Durante il periodo romano, Efeso conoscerà il momento di maggiore prosperità della sua storia. La maggior parte delle rovine che possiamo ammirare oggi risalgono a questo periodo. A partire al 53 d.C. San Paolo soggiornò a Efeso. Si fermò qui anche San Giovanni, in compagnia della Vergine Maria, e qui egli scriverà il suo Vangelo. Durante il III° secolo iniziò la decadenza della città, che venne distrutta e saccheggiata dai Goti. I monumenti pagani vennero abbandonati in favore di quelli cristiani, e la città divenne sede di un importante Vescovado. Dopo l’interramento del porto, il clima divenne malsano, quindi gli abitanti della città spostarono le loro case intorno alla chiesa che l'imperatore Giustiniano fece costruire sul sito della sepoltura di San Giovanni, dando luogo così all’attuale paese di Selçuk, mentre l’Efeso ellenistica e romana venne abbandonata alle paludi. Nonostante il declino, queste rovine suscitano ancora meraviglia ai visitatori, per la grande estensione, la ricchezza e l’ottimo stato dei reperti. Ci sono due entrate: una alta, dalla Porta di Magnesia, e una bassa, dalla via Arcadiana, quella che conduceva al porto. Noi entriamo da quest’ultima. Per primo si incontra un enorme e imponente teatro, costruito in epoca ellenistica e appoggiato alla maniera greca al fianco del monte Pion. Venne ingrandito e modificato in epoca romana; poteva contenere 24.000 spettatori ed era ornato di colonnati e statue. Proseguendo lungo la Via di Marmo, grande arteria che inizia all’estremità occidentale della Via dei Cureti, si passa all’agorà commerciale, per proseguire con la porta monumentale di Agrippa, e subito oltre, la stupenda Biblioteca di Celso. Costruita da Liberius Julius Aquila in onore del padre, governatore generale della provincia romana d’Asia, sfoggia la sua splendida facciata di marmo, decorata da colonne corinzie e da quattro statue femminili rappresentanti le virtù di Celso (sono copie, gli originali si trovano a Vienna). Vi sono poi grandi terme, la fontana di Traiano, anticamente alta 12 metri, il tempio di Domiziano, poi l’Odeon, ovvero un piccolo teatro con otto gradinate, capiente 1.400 spettatori (gli odeon di solito erano riservati alle esibizioni musicali, in questo vi si teneva anche il Consiglio della città). Si prosegue con i resti di una basilica, con le Terme di Vario, l’Agorà superiore e, per finire, la Porta di Magnesia. L’imponenza di questo luogo giustifica il numero enorme di turisti che la invadono tutti l’anno.

Finita la visita al grande sito archeologico, ci fermiamo un attimo, solo per curiosità, a vedere, poco più lontano, il sito ove sorgeva il Tempio di Artemide, il celeberrimo Artemision. Ciò che ne rimane è veramente misero: una colonna malandata. Successivamente visitiamo quella che è indicata come “Casa della Madonna”, o “Meryemana”, 8 chilometri da Selcuk, sul monte Aladag. Si ritiene che in questa casa Maria, madre di Gesù, visse i suoi ultimi anni e morì. È una minuscola casetta di mattoni; all’interno c’è una piccola cappella, molto semplice, dove i fedeli sostano a pregare. Sono stati qui anche Papa Paolo VI° e Papa Giovanni Paolo II°.

Le nostre escursioni proseguono con la “grotta dei Sette Dormienti”, una grotta dove secondo le leggende cristiane e musulmane sette giovani efesini avrebbero trovato rifugio per sfuggire alle persecuzioni di Decio. Si sarebbero addormentati qui, per risvegliarsi solo 200 anni dopo, sotto il regno di Teodosio II°. Alla loro morte, vi sarebbero stati sepolti, e sul luogo sarebbe stata innalzata una chiesa. Visitiamo poi velocemente la Basilica di San Giovanni, dove vennero sepolte le spoglie del santo, un grande santuario a forma di croce, anticamente sormontato da 6 cupole, ora crollate. A fianco, la bella moschea di Isa Bey.  Finiamo con il Museo Archeologico, che conserva vestigia esumate durante gli scavi di Efeso e dintorni. Tra i vari reperti, due mirabili statue riproducenti la dea Artemide Efesina, provenienti dall’Artemision. Vi sono, oltre alle molte sculture, frammenti di mausolei, di sarcofagi e di affreschi, rilievi di capitelli, pavimenti in mosaico.

Purtroppo questa vacanza, che meglio si potrebbe definire un’indigestione di archeologia, è finita davvero, questa sera ci aspetta l’imbarco. Prendiamo la strada che conduce a Izmir, e quindi a Çeşme, dove ci attende la nave che ci porterà a Brindisi. Sostiamo fuori Izmir, in un ristorantino dove un cameriere ci cucina, su una griglia accanto al tavolo, carne e verdure alla brace. Il pranzo è ottimo, la spesa molto modica. Ripartiamo alla volta di Çeşme.  Le poche case si affacciano su un piccolo porto, dove i traghetti fanno la spola tra Turchia, Grecia e Italia. Il nostro è già arrivato, e sta imbarcando le auto e i camper. L’”open deck” sul quale carichiamo il camper (la moto viaggia nella stiva) è talmente stipato che il nostro camper rimane arrampicato in discesa sulla rampa di carico della nave. I camper sono vicinissimi l’uno all’altro e a fatica si riesce a passare. Questa nave è piccola, vecchia e sovraffollata, e non vediamo l’ora che ci porti a destinazione. Impiegherà tutto il giorno e la notte successivi per arrivare in Italia. Finalmente, il porto di Brindisi.

Prendiamo l’autostrada verso casa: unico neo di questo incredibile viaggio: pioggia a dirotto da Brindisi a Bologna! In moto non è divertente!

 

Aspetti positivi del viaggio, secondo noi:

-ricchezza inestimabile del patrimonio storico, archeologico e naturale

-la popolazione estremamente simpatica, disponibile ed ospitale

-scoprire il primo approccio con una cultura orientale

-il costo della vita molto basso, rispetto ai nostri standard

- contrariamente agli altri paesi orientali e mediorientali, non occorre nessun visto per l’ingresso, è sufficiente il passaporto

Aspetti negativi del viaggio, secondo noi:

-il traghetto Çeşme-Brindisi della compagnia Med Link è malridotto e sporco, ma dal 2003 non esiste più, è stato sostituito sulla stessa tratta da una nave della compagnia Marmara Lines, della quale non abbiamo informazioni

-alcuni siti sono soffocati dal turismo di massa (ad es. Antalya, Side, Bodrum, Kuşadasi, Marmaris, Efeso)

Qualche prezzo:

- traghetto Superfast da Ancona a Igoumenitza: 90 € a persona, in cuccetta; 38 € per la moto

-traghetto Med Link da Çeşme a Brindisi 100 € a persona, in cabina 4 letti; 45 € per la moto

-pranzo o cena in locanda, da 3 a 6 €

-pranzo o cena in un ristorante, da 8 a 10 €

Preparazione moto: Yamaha Tenerè XT600

-irrigidito e alzato la sospensione

-montato camere d’aria da fuoristrada

Ricambi portati: Yamaha Tenerè XT600

- candele

- camere d’aria

- filo frizione

- una bottiglietta d’olio

- kit antiforature (Touratech)

Inconvenienti occorsi:

-  al Tenerè: nessuno

-  al camper: Biagio parcheggiando in un campeggio ha urtato un muretto e ha rotto il paraurti anteriore

Qualche informazione pratica:

-  i distributori di benzina si trovano con frequenza, ogni 20, massimo 40 chilometri; nei tratti di autostrada ci sono nuovissime ed efficienti aree di servizio con distributori di benzina rossa, verde e gasolio, e in più ristoranti self service molto forniti e spesso anche un albergo

-  la condizione delle strade in Turchia ovest non è buona, spesso l’asfalto è molto ruvido e sconnesso; ma in confronto alle strade bianche e piene di buche che si trovano oltrepassando la Cappadocia in direzione est, queste sono una favola

-  i cartelli di indicazione di strade e paesi sono frequenti e scritti anche in inglese. In ogni caso, se avevamo dubbi abbiamo sempre trovato persone gentilissime pronte a darci indicazioni o ad accompagnarci sui luoghi

-  durante gli spostamenti, per mangiare ci siamo, come sempre del resto, fermati nelle taverne frequentate da camionisti, dove in genere si mangia bene: dove vedevamo molti camion parcheggiati significava che la cucina era buona. In Turchia che ne sono tante

- Guida utilizzata EDT - LONELY PLANET – TURCHIA

Chilometri totali percorsi: 5.900

Giorni impiegati 31