Da metà luglio a metà agosto 2002 è stato effettuato il viaggio che tra poco vi sarà descritto, ancora una volta in moto, pochi bagagli e tanta voglia di vedere luoghi da favola. I nostri eroi stavolta non sono riusciti a reclutare “volontari” disposti a seguirli nel loro vagabondare per terre islamiche. Per la realizzazione di questo itinerario hanno percorso 7.300 chilometri, in tre settimane di tempo.
Estate 2002. La nostra meta di questo viaggio è ancora una volta la bellissima Turchia. Stavolta vorremmo vedere la parte est di questo sconfinato paese, fortunatamente sconosciuta al turismo di massa, che nel corso delle nostre precedenti numerose visite non siamo mai riusciti a vedere.
Partiamo, Enzo ed io, sabato 20 luglio alle ore 20.00 dal porto di Brindisi con il brutto traghetto della Med Link, l’Aghios Andreas, lo stesso che lo scorso anno abbiamo utilizzato al ritorno dal viaggio in Turchia ovest. Sbarchiamo a Çeşme nella prima mattinata di lunedì 22 luglio, e dopo il controllo dei documenti da parte della polizia turca, partiamo subito alla volta della prima meta, il tempio romano di Giove a Aezani, situato a circa 200 chilometri a sud-ovest di Ankara. Vi arriviamo nel pomeriggio: il tempio, il meglio conservato dell’intera Anatolia, si trova in un poetico villaggio di pastori sperduto tra una ricca vegetazione, Çavdarhisar. Appena fuori dal villaggio, si apre ai nostri occhi, al centro di una vasta area verde, la veduta del bellissimo tempio. Risalente al regno dell’imperatore Adriano, fu dedicato per l’appunto a Giove ed alla dea anatolica della fertilità, Cibele (l’Artemide dei greci): si trova su un’ampia terrazza realizzata appositamente, i lati rivolti a nord e ad ovest hanno una doppia fila di colonne ioniche e corinzie ancora intatte, mentre quelle che si trovano sul lato meridionale e sul lato orientale formano un pittoresco cumulo. Le pareti interne della cella sono rimaste intatte, consentendo di farsi un’idea precisa di come fosse l’edificio. Sotto al tempio, scendendo una ripida scala, si può visitare il santuario di Cibele. Questo sito è oltremodo ricco di fascino: oltre all’ottimo stato di conservazione del tempio, è situato in una bellissima posizione panoramica, lo spiazzo dove esso sorge è circondato da alberi secolari e il villaggio accanto sembra un presepe. Questo luogo è praticamente sconosciuto al turismo, e stranieri ne devono aver visti ben pochi. Lasciando il tempio e seguendo le indicazioni della nostra Lonely Planet, andiamo a vedere ciò che rimane del grande stadio, di un teatro e di una palestra, abbandonate nel verde e dimenticate dalla storia. L’unico suono che si sente qui è il sospiro del vento tra le rovine. Tornando verso il paese di Çavdarhisar si incontra un torrente ed un ponte che passa sopra di esso: seguendo il sentiero che passa a destra del ponte costeggiando il torrente, si incontrano improvvisamente le suggestive rovine del Foro romano, attorniate dalle case dei pastori e da un surreale silenzio.
Si sta facendo tardi, e ripartiamo alla volta di Kütahya, tranquilla città situata in mezzo alle colline sotto le mura di un’imponente fortezza.
È famosa per la lavorazione di ceramiche e piastrelle colorate, che sono usate ovunque; nelle facciate degli edifici, nei pavimenti, sui muri e nei posti più inaspettati. Le piastrelle ceramiche di Kütahya decorano la splendida “Cupola della Roccia” di Gerusalemme”. Proviamo alcuni alberghi citati dalla nostra guida ma li troviamo pieni. Chiediamo indicazioni ad un ragazzo in motorino, che gentilissimo ci accompagna personalmente all’ hotel Hotaş, tre stelle vecchiotto ma recentemente restaurato: si trova in una stradina silenziosa, è economico e pulito. Sarebbe perfetto; peccato che diverse volte durante la notte attacchi la nenia del muezzin della vicinissima moschea, che ci rovina il meritato riposo.
Il giorno seguente ripartiamo per la prossima meta, la capitale del potente impero Ittita, Hattuşa. Arriviamo verso sera a Boğazkale, località piccola e tranquilla con una pensione, qualche negozietto, un ufficio postale e un albergo con annesso campeggio e ristorante, l’Aşikoğlu Turistik Tesisleri. Mucche e vitelli passeggiano indisturbati in mezzo alla strada. Ci fermiamo a pernottare qui.
A pranzo abbiamo mangiato piuttosto tardi, in una locanda per camionisti sulla strada, dove ho mangiato veramente troppo, per voler assaggiare tante gustose specialità.
La sera a cena mangio ancora, e la notte pago le conseguenze dell’abbuffata perché sto veramente molto male, a causa dell’indigestione. Il mattino seguente mi sento come uno zombi, ma siccome non possiamo permetterci di perdere tempo, carichiamo la moto e ci rimettiamo in strada; ci fermiamo a visitare il sito archeologico di Hattuşa, poi ripartiremo verso est.
Il sito di Hattuşa è strano, quasi inquietante, e affascina più per il carattere aspro e antico del paesaggio che per le rovine tuttora esistenti, che in verità sono scarse, anche se occupano una zona assai vasta.
Rimangono fondamenta di parecchi edifici: il Büyük Mabed, Grande Tempio del Dio della Tempesta, vasto complesso che è quasi una città a se stante, poi il Sarו Kale, un forte di epoca frigia costruito su fondamenta ittite, e la famosa Aslanlו Kapו, la Porta dei Leoni, dove due leoni in pietra sono posti a difesa della città. Si prosegue ancora in cima alla collina, dal sottostante paesaggio selvaggio e solitario, per vedere la Yer Kapו o Sfenksli Sfenksli Kapו, ovvero Porta della Terra o Porta delle Sfingi, in passato difesa da due grandi sfingi che ora sono custodite una ad Istanbul ed una a Berlino. La cosa più interessante è un’antica galleria di 70 metri che va dalle mura ad una porta segreta situata sul lato meridionale della collina. Scendiamo dalla collina e ci spostiamo a Yazוlוkaya,che in turco significa “roccia con iscrizioni”, a circa 3 chilometri da Boğazkale; la strada gira intorno ad una montagnola chiamata Ambarlו Kaya, sulla cui cima c’erano anticamente altri edifici ittiti, poi attraversa un torrente e sale sulla collina. Yazוlוkaya è un santuario naturale a cielo aperto, ma alla fine dell’era ittita di fronte alle gallerie naturali nella roccia furono erette porte monumentali e templi. Nella galleria naturale più grande, sulla sinistra, c’era il luogo sacro dell’impero, mentre quella più stretta, sulla destra, era il luogo di sepoltura della famiglia reale; nella galleria grande i bassorilievi, che si stanno rapidamente deteriorando, raffiguranti la processione di numerose divinità, indicano che questo era il santuario religioso più sacro. Le sculture meglio conservate sono nella galleria posteriore, al cui ingresso fa la guardia un leone scolpito nella roccia.
Anche qui siamo gli unici visitatori. Fuori dal sito, alcuni artigiani vendono riproduzioni in pietra fatte a mano, da loro, dei bassorilievi che abbiamo ammirato nelle gallerie; sono veramente bellissimi, e rimpiangiamo di non avere sufficiente spazio sulla moto per poter acquistare quelli più grandi. Ci accontentiamo di un leoncino con le fauci aperte e di un bassorilievo raffigurante un cocchio ittita trainato da due cavalli, di piccole dimensioni (ma di peso considerevole!).
Ci rimettiamo in strada verso la prossima meta. Da qui in poi i territori che visiteremo si trovano tutti sull’altopiano anatolico, la cui altezza parte da 1.500 metri in sù. Proseguendo il viaggio, troveremo valichi oltre i 2.500 metri e neve sulle montagne.
Il tempo sta peggiorando sempre più: spostandoci in direzione est troviamo alcuni temporali, ci fermiamo a mettere le tute da pioggia e ripartiamo. Arriviamo nel tardo pomeriggio a Sivas, dove ci fermiamo solo per pernottare; è una città moderna, scarsamente frequentata dai turisti, ma è il luogo in cui la Turchia occidentale modernizzata si fonde con l’esotica Turchia orientale.
Troviamo un bell’hotel a Sivas, per una spesa modica; dopo cena facciamo due passi per la città, ma siamo piuttosto stanchi e fa freddo. Ci fermiamo in un negozio di abbigliamento per comprare due felpe, da aggiungere domani sotto la giacca da moto, poi andiamo a dormire. La mattina seguente partiamo alla volta di Erzurum, nota come essere la città più fredda di tutta la Turchia. Il tempo è sempre brutto e soffia vento freddo, nuvole scure e basse si addensano ancora all’orizzonte; i panorami però sono splendidi, sempre più selvaggi mano a mano che si va verso est.
Avvicinandoci a Erzurum è davvero un freddo polare, nonostante siamo in agosto, forse anche a causa di una grossa perturbazione che è appena passata e che ha causato ingenti danni a Konya e a Rize. Il cielo è grigio piombo e non promette nulla di buono; continuiamo il tragitto, tra bellissimi panorami di montagna, però a pochi chilometri dalla città ci coglie una vera e propria tempesta. Indossiamo velocemente le tute da pioggia e proseguiamo. Arriviamo a Erzurum sotto il diluvio: fortunatamente troviamo subito l’Hotel Sefer, una sola stella ma grazioso e pulito, e scopriremo che ha un ristorante dove si mangia molto bene.
Siamo molto infreddoliti, e vorremmo farci una doccia calda: scopriamo purtroppo che in questo momento non c’è acqua calda nella doccia, pertanto per scaldarci tiriamo fuori dall’armadio i panni invernali e ci infiliamo sotto le coperte. Enzo naturalmente dopo pochi minuti sta già dormendo, mentre io passo il tempo leggendo la guida. Dopo esserci un po’ ritemprati, scendiamo al ristorante dell’hotel, dove mangiamo doner kebap (arrosto girato, cioè cotto su uno spiedo posto in verticale), verdure miste, patate al forno, e al termine, l’immancabile çay (il tipico tè del mar Nero che i turchi bevono in enormi quantità e che offrono ai turisti in tipici bicchierini di vetro).
Dopo cena ci mettiamo a chiacchierare con i proprietari dell’hotel, che sono increduli quando gli spieghiamo che veniamo dall’Italia in moto.
Vorremmo fare due passi per vedere questa affascinante città, ma il freddo è tale da scoraggiarci a mettere il naso all’esterno; non eravamo preparati ad una temperatura simile, per cui non siamo adeguatamente attrezzati, felpe e giacche da moto non sono sufficienti a ripararci.
L’indomani mattina, di buon ora, ricarichiamo i bagagli e partiamo con meta il lago di Van. Il nostro termometro segna 5 gradi, e ricordiamo che siamo in agosto.
Prima di lasciare Erzurum ci fermiamo a vedere l’animata zona del mercato e il Çifte Minareli Medrese, ossia il Seminario dei Minareti Gemelli; risale al periodo in cui Erzurum, città segiuchide, fu attaccata e devastata dai Mongoli, e il torreggiante portale in pietra calcarea è sormontato dai due minareti gemelli decorati con piccole mattonelle blu. Le cime dei minareti non esistono più, avendo ceduto agli eventi violenti della storia di questa città.
Rimontiamo in sella e partiamo, la direzione è sempre est. I paesaggi sono sempre più selvaggi, la condizione delle strade pessima; ci sono grosse buche e lunghi tratti sterrati. Ad Horasan prendiamo la direzione di Ağri, poi giunti ad Ağri seguiamo la strada in direzione sud, salendo sul il massiccio montuoso del Ala Dağlar. Finalmente, dopo giorni di nubi, pioggia e freddo, rivediamo il sole.
I paesaggi rocciosi ad un tratto mutano in colate laviche del vulcano ormai spento, tramutando il paesaggio in uno scenario lunare e magico. La strada comincia a scendere, in lontananza si scorge già il grande lago.
Giungiamo a costeggiare il famoso lago di Van, in turco Van Gölü, una delle mete sognate da tanti motociclisti, e a giusta ragione; arrivare qui è faticoso, la strada da percorrere è lunga e difficile, e queste zone fino a pochi anni fa erano definite pericolose. Sembra di essere veramente in un altro mondo, dove la modernizzazione si è fermata 100 anni fa: si incontrano pochi veicoli per strada, solo frequenti posti di blocco militari. Gli scenari sono meravigliosi, montagne innevate si stagliano contro un cielo color cobalto, e ai loro piedi boschi verdissimi, fiumi, piccoli laghi, grandi campi di grano dove i contadini mietono a mano, con lunghe falci, e caricano i covoni su carri trainati da buoi.
Dopo aver costeggiato parte del lago arriviamo alla città di Van. Ci sistemiamo al Büyük Asur Oteli, che la nostra fedele guida Lonely Planet ci indica tra i migliori come rapporto qualità-prezzo (ricordiamo che in Turchia, e soprattutto dalla parte est, i prezzi sono veramente modici, anche per un buon hotel).
Per fortuna il clima è molto migliorato, c’è il sole ed è un piacevole caldo secco, mentre la sera rinfresca leggermente.
Van è una città moderna in via di espansione, che fa del proprio meglio per lasciarsi alle spalle un passato turbolento. Van è conosciuta soprattutto per la Van Kalesi (Castello o Rocca di Van), che conserva alcune lunghe iscrizioni a caratteri cuneiformi risalenti al periodo in cui fu capitale del regno di Urartu; è anche il luogo d’origine di una particolare razza di gatti bianchi, con un occhio azzurro e uno verde. Sul mercato questi gatti hanno raggiunto un valore tale che i loro proprietari tendono a tenerli segregati, per cui è molto difficile vederne qualcuno in giro, a parte le fotografie che campeggiano nelle vetrine dei negozi e a parte una statua di dubbio gusto che si trova sulla strada che conduce al lago e rappresenta una gatta con i cuccioli. Molti di questi gatti vengono allevati in un istituto specializzato all’interno della città universitaria, in un ampio spazio recintato dove possono correre e giocare. Si dice che il gatto di Van sia in grado di nuotare nelle acque del lago, come pure un recente acquisto della fauna locale, il Van Canavarו, un mostro che fa concorrenza a quello di Loch Ness. Le prime notizie sull’esistenza di questo mostro si diffusero negli anni sessanta, quando un giornale riferì dell’avvistamento di un animale simile ad una lontra di circa 2 metri di lunghezza. Da allora le storie si sono moltiplicate, c’è chi dice che somigli a un cavallo, chi ad un drago.
La macchia azzurra del Van Gölü è ciò che spicca maggiormente sulla cartina della Turchia sud orientale; formatosi quando il vulcano Nemrut Dağı, a nord di Tatvan, interruppe con colate laviche il naturale deflusso delle acque. Il livello dell’acqua rimane ora costante grazie all’evaporazione, che provoca un’alta concentrazione di minerale ed una elevata alcalinità: il bucato lavato nel lago viene fuori assolutamente pulito senza bisogno di usare sapone.
La sera, dopo aver cenato in una locanda, ci mettiamo a chiacchierare (in inglese) con il proprietario di un immancabile negozio di tappeti situato esattamente a fianco del nostro hotel: è una persona veramente gentile e simpatica, e tra una chiacchiera e l’altra, gli acquistiamo tre kilim (tappeti) curdi, che, per inciso, qui costano un terzo di quello che costerebbe lo stesso tappeto in una città della Turchia ovest. I kilim sono tappeti in lana o misto lana e cotone, senza pelo, con disegni astratti o raffiguranti animali multicolori. Ogni tappeto riporta i disegni tradizionali della tribù che l’ha realizzato; quelli che abbiamo acquistato sono tipici di questa zona, e sono stati realizzati da tribù curde (la Turchia est è abitata dal 90% di popolazione curda). Uno di essi, il “sumak”, raffigura stilizzati i gatti bianchi di Van.
I nostri kilim vengono accuratamente ripiegati, e quando partiremo, dovremo studiarne la sistemazione sulla moto.
Il giorno seguente al nostro arrivo, facciamo il giro della costa sud del lago fino alla città di Tatvan. I panorami sono selvaggi e davvero splendidi: la strada si snoda a fianco del lago, e a tratti passa in un bosco in mezzo al quale scorre un torrente dall’acqua cristallina, le colline sono verdissime e, sullo sfondo, si innalzano anche qui alte montagne dalle cime innevate.
Tatvan è una cittadina scarsamente interessante: si viene fin qui, oltre che per ammirare il panorama lungo il tragitto, per fare un’escursione sulla cima del vulcano Nemrut Dagi (2600 metri). In Turchia centrale c’è un’altra montagna con lo stesso nome di questa; ne abbiamo già parlato nel nostro viaggio precedente “Turchia Ovest”, si tratta del monte con in cima i colossi di Antioco I° di Commagene e la sua tomba fantasma. Questo invece è un vulcano ormai spento, alto 3.050 metri, sulla cui sommità si contano cinque laghi formati da antichi crateri. Fu la lava sgorgata dal vulcano Nemrut a bloccare il deflusso delle acque del lago di Van, creando così il vasto bacino attuale di 3.750 kmq.
L’escursione sul vulcano è un’esperienza indimenticabile: alla cima arriviamo in moto, lungo una ripida e strettissima strada male asfaltata, piena di buche e con uno spaventoso strapiombo su un lato. Il panorama del lago dall’alto è stupefacente, e questo vulcano sperduto ci ricorda un paese fatato e inesplorato.
Arrivati in cima, improvvisamente si apre alla nostra vista uno dei crateri spenti; ora ospita un lago, le cui acque oscure e immote ci danno la sensazione di essere lì dall’eternità. C’è un silenzio irreale, irreale come il colore bronzeo dell’acqua del lago; si avverte solo il sibilo del vento, e abbiamo l’impressione che da un momento all’altro dallo specchio d’acqua del cratere spunti Excalibur; lo scenario è talmente magico da indurre suggestioni mitologiche.
Ci fermiamo per parecchio tempo; raccogliamo per ricordo alcuni pezzi di lava che sono sparsi ovunque. Scendendo nuovamente verso Tatvan ci fermiamo a raccogliere alcuni fiori selvaggi di un bellissimo colore blu elettrico: a casa li faremo seccare per ottenere i semi, da seminare in primavera, per provare a far crescere anche in Italia queste meraviglie del vulcano Nemrut. Incontriamo un minuscolo villaggio di pastori le cui case di fango si distinguono a malapena dal terreno circostante: ci attraversa la strada una lunga fila di pecore e capre che tornano da sole verso l’ovile, tutte disciplinate una dietro l’altra, e più oltre alcune donne fanno il bucato ad una sorgente d’acqua che sgorga dalla roccia: sembra di aver fatto un salto di un secolo nel passato.
Tornando purtroppo alla civiltà, ci dirigiamo nuovamente verso Van: ci fermiamo a pranzare in una piccola locanda sulla strada, dove oltre a noi ci sono solo camionisti; veniamo guardati come marziani, perché evidentemente in queste zone turisti non ne hanno mai visti, tanto meno in questa modestissima taverna.
Il pranzo è semplice e buono, pollo arrosto, kebap, insalata, çay alla fine. I proprietari della locanda e alcuni ragazzini seduti vicino a noi ci riempiono di attenzioni: per loro siamo rarità. Quando poi gli diciamo che arriviamo in moto dall’Italia, rimangono trasecolati.
Per loro, la visita di due sperduti turisti italiani sarà motivo di interesse e racconti per diversi giorni. Tornando verso Van, ci fermiamo al villaggio di Gevaş e parcheggiamo la moto: prendiamo una barca e andiamo all’isolotto di Akdamar, a tre chilometri dalla riva, che custodisce uno dei capolavori dell’architettura armena, la Akdamar Kilisesi ovvero la Chiesa della Santa Croce. I bellissimi bassorilievi raffigurano storie della Bibbia: Giona e la balena, Adamo ed Eva, Davide e Golia, Abramo e Isacco, Daniele nella fossa dei leoni, Sansone ed altri personaggi. All’interno vi sono molti affreschi, purtroppo rovinati.
Sulla piccola isola di Akdamar, disabitata, ricoperta di lussureggiante vegetazione, ci sono solamente, oltre alla chiesa, un paio di chioschi che vendono spuntini e bevande; gustiamo un çay seduti al fresco sotto un albero secolare, e osserviamo come molti abitanti vengono qui da Van e Tatvan a fare picnic nel bosco e un bagno nelle acque limpide del lago.
Torniamo verso terra col primo battellino in partenza, recuperiamo la moto e torniamo a Van.
Il mattino seguente nostro malgrado dobbiamo ripartire. L’operazione di carico della moto richiede un lungo ed elaborato cerimoniale: ogni pacchetto ha un posto preciso, ogni tappeto deve essere sistemato a modo. Alla fine della preparazione ci ritroviamo un tappeto legato sopra il bauletto sinistro, mentre sul bauletto posteriore, fissati dai ragni, ci sono due tappeti, pacchi di çay e di byber (il peperoncino turco, aromatizzato e speziato, dall’ottimo gusto dolciastro), bottiglie d’acqua per il viaggio, il mio Belstaff pronto all’uso in caso di pioggia. Un carico da fare invidia ad un cammello. Quando partiamo da Van, si è ridotto un capannello di curiosi intorno a noi.
La prossima tappa è la città di Doğubayazit, a circa 30 chilometri dal confine con l’Iran. Attraversiamo nuovamente il massiccio montuoso dell’Ala Dağlar, questa volta però in direzione nord est. Quando la strada scende dalla montagna, si offre ai nostri occhi ammirati il grandioso monte Ararat (in turco Ağrו Dağו), altra meta ambita per molti motociclisti. Le sue due vette figurano nelle leggende fin dalla notte dei tempi, basta ricordarle come il luogo su cui venne a posarsi l’Arca di Noè. Nel corso degli anni diverse persone riferirono di avere visto la sagoma di una barca sul fianco del monte e nel 1955 i partecipanti ad una spedizione riportarono a valle quello che si riteneva fosse un pezzo di legno proveniente dall’Arca di Noè, trovato in un lago ghiacciato. La vetta sinistra, per chi guarda il monte da Doğubayazit, è chiamata Büyük Ağrו (Grande Ararat) ed è alta 5.137 metri, mentre il Küçük Ağrı (Piccolo Ararat) arriva a circa 3.895 metri. La giornata è limpidissima, le vette perennemente innevate sono quasi libere da nubi, un fatto estremamente raro, come ci spiegano più tardi.
La città Doğubayazit è un polveroso avamposto, e un europeo la definirebbe squallida, ma in realtà ha un grande fascino: si respira aria di frontiera, di contrabbandieri di tappeti e stupefacenti provenienti dall’oriente misterioso, di un mondo tanto diverso dal nostro. Anche qui vieni osservato dai passanti come un alieno. Troviamo l’hotel che la guida ci consiglia: è l’Hotel Nuh, tre stelle. La camera è piccolissima ma è pulita e la finestra della nostra cameretta si affaccia sulla mole imponente dell’Ararat. Ci riposiamo un po’, laviamo i caschi ridotti in modo vergognoso, e verso sera saltiamo in sella al Tenerè finalmente scarico per andare a vedere il tramonto all’Íshak Paşa Sarayו, il bellissimo palazzo costruito dal 1685 al 1784 da Çolak Abdi Paşa e dal figlio, di nome Íshak (Isacco). Si ispira all’architettura ottomana, armena, selgiuchide, georgiana e persiana, e si trova in cima ad uno sperone roccioso che sporge sulla città sottostante; si ha una splendida veduta di Doğubayazit e della pianura circostante, fino alle montagne e all’orizzonte lontano. Aspettiamo il tramonto seduti ai tavolini di una modesta caffetteria, insieme a qualche turco che è venuto a godersi lo spettacolo: è costruita su una collinetta di fronte al palazzo, e da questo punto si ottengono le inquadrature migliori della splendida costruzione
Quando lentamente il disco solare si va a nascondere dietro alle montagne, illuminando ogni cosa di rosso e d’oro, scattiamo decine di foto. Dopo il calare del sole, ormai al buio, rientriamo in albergo. Il nostro hotel ha un bel ristorante all’ultimo piano, dotato di una enorme vetrata rivolta verso l’Ararat.
Ceniamo e andiamo a dormire.
L’indomani si rifanno i bagagli e si parte verso una nuova meta; andremo a Kars, da cui si parte per la visita di Ani, la città fantasma sul confine armeno.
Passiamo proprio alle pendici dell’Ararat, seguendo la strada che va verso Kars. La statale esce dalle lussureggianti valli montane e si e si allontana dalle foreste di piante sempreverdi per raggiungere una vasta zona di steppa ondulata, scandita da castelli, greggi di pecore e mandrie di mucche e cavalli al pascolo, con le montagne sullo sfondo.
Kars è un piccolo centro agricolo sede di una guarnigione, e non stupisce di respirare anche qui aria di confine. Arriviamo nelle prime ore del pomeriggio, e troviamo un buon albergo, l’Hotel Karabağ. Dopo esserci ripuliti e sistemati, andiamo a visitare Ani, che si trova a circa 40 chilomeri da Kars. Ani è una città fantasma che si trova esattamente sul confine turco-armeno, ed è necessario richiedere un permesso per visitarla; la cosa è però complicata dal fatto che per ottenerlo è necessario passare da tre differenti uffici posti in punti di Kars lontani tra loro. Si inizia l’iter compilando un modulo all’ufficio turistico, che va poi portato e fatto timbrare dal Direttorato della sicurezza, due isolati più a ovest. Poi si va al Museo a comprare il biglietto, perché ad Ani non c’è biglietteria.
Arrivati ad Ani, parcheggiamo la moto. La città era importante e fiorente in epoca bizantina; le lotte per il suo possesso si alternarono tra bizantini, armeni, selgiuchidi e curdi fino al 1.239, quando arrivarono i Mongoli che eliminarono ogni avversario. Fu deturpata nel 1.319 da un terremoto, e l’ultimo grave colpo fu inferto da Tamerlano.
Ocaklו Köyü, ai piedi delle grandi mura di Ani, è un tipico, poverissimo villaggio turco-curdo dalle case di pietra e fango: vi aleggia l’odore del letame bruciato come combustibile, e i bambini si offrono come guide in cambio di piccole mance, biro, caramelle, sigarette.
Si entra nella città in rovina attraverso l’Arslan Kapוsו, una grande porta ornata dal rilievo di un leone. Il primo impatto è sbalorditivo: le rovine dei grandi edifici sparsi in un mare d’erba testimoniano che in questo centro abitato, che una volta eguagliava Costantinopoli in potere e gloria, e ora ridotto a una città fantasma, vissero in passato più di 100.000 persone. Oggi il canto degli uccelli è praticamente l’unico suono portato dalla brezza che soffia costantemente, e camminando si sente sprigionarsi il profumo penetrante della menta. Oltre la Chiesa del Redentore, metà della quale fu distrutta da un fulmine, nei pressi delle mura che separano Ani dall’Arpa Çayı, sorge la chiesa di San Gregorio l’Illuminatore, ben conservata. Seguendo i sentieri che vanno verso sud ovest e scendendo nella gola dell’Arpa Çayı si incontra il Convento delle Vergini, cinto da un muro difensivo; a ovest ci sono le scarse rovine di un ponte che attraversava il fiume. Risalendo nuovamente sull’altopiano si trova la Fethiye Camii, la chiesa più grande e imponente; il cielo color cobalto entra nell’edificio dalla grande cupola crollata diversi secoli fa. Vi sono innumerevoli altri edifici in rovina ad Ani, sparsi su una superficie molto grande e nella più assoluta solitudine. Dalla parte opposta dell’Arpa Çayı ci sono le garitte delle sentinelle armene, poiché il fiume funge da linea di confine.
La visita di Ani da sola vale l’intero viaggio. Questo sito è incredibilmente suggestivo, le grandi chiese, i palazzi, la fortezza, dispersi tra l’erba sull’orlo del burrone in fondo al quale scorre il fiume che separa la Turchia dall’Armenia, maestosi e abbandonati in questa pianura deserta, evocano i giorni di grandezza della città.
Rientriamo a Kars, passeggiamo un po’ per il piccolo centro, gustiamo un gelato turco. È buono, solo un po’ più gelatinoso del nostro.
Il mattino seguente si parte verso il Mar Nero. Il tragitto si snoda tra le montagne, in mezzo a selvaggi e bellissimi panorami boschivi; fiumi limpidi scorrono a fianco della strada, piccoli paesi di casette di legno si affacciano dall’alto dei monti. Il maltempo in questa zona ha infierito parecchio nei giorni scorsi, infatti troviamo la strada interrotta in diversi punti dalle frane; parecchie ruspe stanno lavorando per rimuovere i detriti. A Rize, dove ci stiamo dirigendo, il maltempo ha causato gravi smottamenti della montagna, con distruzione di abitazioni, morti e feriti. Passato il paese montano di Artvin, proseguiamo fino a sboccare sul Mar Nero, che intendiamo costeggiare per tutta la sua lunghezza. In realtà cambieremo idea ben presto: l’acqua del mare è sporca, il clima molto umido, i paesaggi scarsamente interessanti. Non ci sono spiagge, solo brutti paesi, fabbriche che lavorano il çay (è zona di coltivazione) e discariche di rifiuti proprio sul mare. La strada statale è strettissima, l’asfalto spesso è liquefatto e pieno di buche, molti pezzi addirittura sono completamente sterrati e il traffico intensissimo, tant’è che per percorrere 150 chilometri impieghiamo tutto il pomeriggio. Visto che anche il clima non ci dà una mano, perché sta iniziando a piovere, ed ormai è tardi, vediamo un invitante hotel sulla strada, nei pressi del paesino di Ordu, e ci fermiamo a dormire qui. L’Hotel Baliktaşı in effetti è molto carino, ha una bella piscina posta su di una terrazza in riva al mare e una spiaggetta privata; l’acqua del Mar Nero è sporca, e desistiamo dall’idea di fare il bagno, però ci concediamo un tuffo in piscina, visto che ha smesso di piovere. Ceniamo e andiamo ben volentieri a dormire. Il giorno seguente ripartiamo sempre costeggiando il mare, ma i luoghi sono talmente poco invitanti che decidiamo di spostarci verso l’interno, in direzione di Sümela, dove arriviamo stanchissimi a causa del traffico infernale che abbiamo incontrato sulla strada del Mar Nero. È già buio, e non abbiamo nemmeno la forza di cercare un albergo: ci infiliamo nel primo che incontriamo, il lussuoso Hotel Sümela, 4 stelle, molto bello a dire il vero. Ci rimettiamo in sesto con una bella doccia, e ceniamo in una “kebaperia” proprio di fronte all’hotel, dove servono tutti i diversi tipi di kebap che si può trovare in Turchia.
Il mattino seguente andiamo a visitare il monastero greco-ortodosso di Sümela. È dedicato alla Vergine Maria, fu fondato in epoca bizantina e abbandonato in seguito alla fondazione della repubblica turca e il naufragio della speranza di creare un nuovo stato greco in questa regione. Il monastero è attaccato a una ripida parete di roccia che sovrasta le foreste di piante sempreverdi e un impetuoso torrente di montagna; è un luogo che appare sinistro e misterioso, soprattutto quando la nebbia avvolge le cime degli alberi della valle sottostante. Si arriva al monastero a piedi seguendo un ripido sentiero, dopo aver abbandonato la moto; è composto da piccole cappelle e stanze, e da una cappella principale, scavata nella roccia, decorata esternamente e internamente da affreschi.
Dopo la visita del monastero passiamo in albergo a caricare le valige sulla moto e partiamo con meta Amasya. Questa città è descritta come una delle più belle dell’intera Turchia; situata in una gola attraversata dallo Yeşilוrmak (Fiume Verde), Amasya è un luogo splendido dove fermarsi per un giorno o due. Separata dal resto dell’Anatolia e racchiusa nella sua stretta valle montana, in passato fu capitale del grande regno del Ponto; la sua suggestiva posizione va ad aggiungersi all’interesse suscitato dai suoi numerosi edifici storici, in particolare dalle tombe rupestri dei Re del Ponto e dalle belle moschee e medrese (scuole teologiche) antiche. Ma ciò che rende Amasya così speciale sono le sue pittoresche case ottomane in legno e muratura, particolarmente numerose sulla sponda occidentale del fiume.
Arriviamo nel primo pomeriggio, ci sistemiamo in un grazioso e caratteristico hotel, il Melis Hotel, a gestione familiare e arredato con mobili e suppellettili d’epoca.
Dopo una bella doccia andiamo a passeggiare per la cittadina. Siamo vicini al Museo Archeologico, che conserva reperti di epoca pontica, romana, bizantina, selgiuchide e ottomana, più una collezione di kilim, armi e abiti antichi; vorremmo entrare a visitarlo ma purtroppo è chiuso per lavori di restauro; è aperta però, nel giardino del Museo, la cripta di epoca selgiuchide che contiene diverse mummie (in turco “mumyalar”) piuttosto raccapriccianti. Dopo la visita alle mummie, percorriamo il “lungofiume” dove si affacciano le tipiche case e, giunta l’ora di cena, troviamo un ristorante con terrazza sul fiume, dove ci fermiamo per cenare. Mangiamo molto bene, e godiamo del fresco che sale dalle acque dello Yeşilוrmak. Rimaniamo tutto il giorno successivo; visitiamo le tombe pontiche, scavate in una ripida parete di roccia nel IV° secolo a.C. e utilizzate per il culto dei re divinizzati. Sono in tutto 14 ma sono completamente spoglie. In cima alla roccia nella quale sono state scavate le tombe è arroccato quasi per miracolo il “kale” (castello), risalente al regno di Mitridate, ristrutturato dagli Ottomani e recentemente negli anni 80. Su una sporgenza appena al disotto della cittadella c’è un vecchio cannone russo da cui vengono sparati alcuni colpi al termine del Ramadan per celebrare la fine del digiuno.
Dopo la visita delle tombe e della cittadella è la volta delle belle moschee: la Göl Medrese Camii (moschea del seminario azzurro), la Sultan Beyazıt II° Camii, la Burmalו Minare Camii (moschea del minareto a spirale) e la Gümüşlü Camii (Moschea argentata), tutte rigorosamente visitate a piedi scalzi.
Troviamo una interessante “casa-museo”, una residenza ottomana del secolo scorso, perfettamente restaurata e mantenuta così com’era. Nelle belle stanze dai pavimenti in legno, sui tipici divani all’orientale, sono stati sistemati manichini maschili e femminili nei costumi dell’epoca. L’insieme è molto suggestivo. Passeggiamo ancora per la cittadina, fotografando moschee, edifici, angoli caratteristici.
L’indomani, di buon ora, si parte. Dobbiamo percorrere una tappa molto lunga, 690 chilometri, per arrivare a Bursa. Lentamente ci stiamo spostando verso il confine greco. Arriviamo a Bursa verso sera, stanchi e impolverati, pertanto ci concediamo ancora un piccolo lusso: un hotel 4 stelle sulla collina di Çekirge, che si trova fuori dal caos cittadino. L’hotel Dilmen non è nuovissimo ma comunque lussuoso, e nelle vasche da bagno delle sue camere scorre acqua termale. La guida diceva che questo hotel, nonostante sia 4 stelle, ha prezzi accessibili; scopriamo con piacere che i prezzi sono ancora più bassi di quelli indicati dalla guida, infatti ci chiedono 30 $ per la camera doppia.
Bursa fu la prima capitale dell’impero ottomano ed è il luogo che ha visto nascere la cultura turca moderna. Chiamata Prusa perché fondata dal re Prusia di Bitinia nel 200 a.C. passò sotto il dominio del regno di Pergamo e in seguito dei romani. Assunse importanza nei primi secoli dell’era cristiana quando si iniziarono a sfruttare su larga scala le terme di Çekirge; in quello stesso periodo, con l’importazione dei bachi da seta e la costruzione dei primi telai nacque l’industria della seta, che sopravvive ancora oggi.
La sera ceniamo un una modesta “kebaperia” di fronte all’albergo, e il giorno seguente visitiamo i luoghi più importanti della città. La Emir Sultan Camii è la moschea più bella di Bursa, ma non le è da meno la Yeşil Camii, di fronte alla quale c’è la Yeşil Turbe, ovvero la Tomba Verde, che custodisce le spoglie del sultano Mehemet I° e quelle dei suoi figli, splendido mausoleo interamente decorato di piastrelle ceramiche azzurre e verdi.
Nel pomeriggio, con una teleferica (per fare il biglietto abbiamo fatto una estenuante fila di quasi 2 ore) arriviamo in cima al monte Uludağ, dove gli abitanti di Bursa si recano a fare picnic e a prendere il fresco in estate, e a sciare in inverno. Tanti infatti salgono con la teleferica sulla cima del monte, portandosi da casa verdura, frutta, pane, carne. In cima al monte, coperto di pinete, vi sono un ristorante e alcuni chioschi che affittano piccoli barbecue; ognuno poi si sistema in un punto del bosco, dove meglio crede, e si cuoce ciò che ha portato. È domenica, e la cima boscosa del monte Uludağ brulica di persone come il bazar di Istanbul. Ci sediamo a mangiare un panino gigantesco pieno di köfte (polpette alla griglia) e verdure, poi facciamo fuori un vaso di castagne sciroppate, che sono la specialità di Bursa (in effetti, le pendici del monte sono ricoperte di castagni).
Ci godiamo il fresco e la bellezza del panorama, facciamo quattro passi tra gli abeti, poi, verso sera, riprendiamo la teleferica che riporta giù a Bursa.
Il mattino seguente andiamo a fare shopping al bazar coperto (Kapalו Çarşı): non è turistico come quello di Istanbul, gli acquirenti sono tutti turchi. All’interno del bazar si trovano il Koza Han e l’Emir Han, antichi caravanserragli dove si fermavano le carovane di cammelli che andavano verso l’Estremo Oriente: oggi vi si svolge la vendita dei preziosi bozzoli e dei prodotti della seta: stoffe, abiti, foulard, sciarpe. Facciamo parecchi acquisti, anche perché i prezzi sono ottimi e si riesce a contrattare piuttosto bene, come è di regola in tutti i paesi musulmani. Alla fine dello shopping, torniamo in albergo, facciamo le valigie e partiamo in direzione del confine greco. La quantità di oggetti che riusciamo a far stare nelle valigie, nei ragni e nella borsa del serbatoio è davvero incredibile. Ci dirigiamo verso nord: arrivati a Lapseki prendiamo un traghettino, che in pochi minuti ci scarica dalla parte opposta dello stretto dei Dardanelli. Riprendiamo la strada verso il confine greco, dove arriviamo nel tardo pomeriggio. Dopo le consuete lungaggini alla frontiera turca, e un rapidissimo passaggio della frontiera greca, entriamo in territorio ellenico, e verso sera ci fermiamo ad Alexandroupoli per dormire. Gli alberghi sono tutti pieni, ma grazie alle indicazioni di un albergatore, troviamo una sistemazione in una camera in affitto. L’indomani, di prima mattina, riprendiamo la strada verso sud-ovest. Nel pomeriggio arriviamo ad Agios Mamas dalla nostra amica greca Maria, la veterinaria che ci ha ospitati anche l’anno scorso, quando abbiamo fatto il lungo viaggio in Turchia ovest. Ci ospita anche questa volta, e la sera andiamo tutti insieme a cena in una taverna di loro conoscenza, dove cucinano pesce veramente superlativo. Inoltre, consigliati dai nostri amici greci, assaggiamo piatti della cucina locale che nemmeno sapevamo esistessero. Quando i turisti vanno a mangiare in una taverna greca, gli vengono propinati sempre gli stessi piatti: souvlaki, tzatziki, moussaka, insalata greca. In realtà la cucina greca è molto più varia di quanto credevamo; ci sono molti tipi diversi di antipasti, di primi, di secondi, di insalate e di dolci: bisogna solo essere capaci di ordinarli. Il mattino seguente, partenza per Volos: da questa città salpano i traghetti che vanno alle isole Sporadi, le più verdi di tutto l’Egeo. La meta designata è Skopelos, ancora poco turistica rispetto alla vicina e più famosa Skiathos. Arriviamo a Volos, per miracolo troviamo posto sul traghetto per le Sporadi: dopo una lunga attesa, riusciamo ad imbarcarci e partiamo verso gli agognati giorni di riposo totale, già messi in preventivo all’inizio del viaggio.
Durante la navigazione un branco di delfini si affianca alla nostra nave e si esibisce in spettacolari salti e piroette dentro e fuori dall’acqua. Fortunatamente ho la macchina fotografica a portata di mano e riesco a immortalarne alcuni. Sono bellissimi, e sono almeno una decina.
Verso le 23.00 sbarchiamo finalmente al porticciolo di Skopelos. Siamo fortunati: nonostante temessimo il contrario, perché le isole greche in questo periodo sono prese d’assalto dai turisti, troviamo subito un albergo, proprio di fronte al porto, nel centro del piccolo paese. La spesa è modica è l’albergo, Hotel Elena, è carino. Ci sistemiamo e nonostante sia ormai molto tardi speriamo di riuscire a cenare: è così infatti, ci fermiamo in una taverna di fronte all’hotel. È incredibile come in Grecia e in Turchia i ristoranti accettino i clienti fino agli orari più impensabili: è passata la mezzanotte, e continua ad arrivare gente che si siede per mangiare. Il giorno seguente giriamo la piccola isola in lungo e in largo, ci fermiamo in relax totale in alcune delle innumerevoli bellissime spiagge. Il mare è puro cristallo, non si uscirebbe mai dall’acqua. La sera, cena alla solita taverna, dove si mangia bene e si spende poco.
Il giorno dopo, arriviamo fino dalla parte opposta dell’isola: Skopelos, come tutte le Sporadi, è verdissima, ricoperta interamente di pinete e macchia mediterranea. Questo gruppo di isole differisce dalle Cicladi e dal Dodecaneso proprio per questa caratteristica, la folta vegetazione. Inoltre, tranne la più nota, Skiathos, sono isolette piccole e tranquille, non troppo affollate dai turisti. Anche quest’oggi ci fermiamo in spiaggia, dopo un ottimo pranzo a base di pesce. L’ultimo giorno delle nostre vacanze lo passiamo a Alonissos, la più selvaggia delle Sporadi. Qui c’è veramente pochissimo turismo, un solo minuscolo paesino, qualche albergo sparso qua e là lungo la costa e belle spiagge. Alonissos è un pò più arida di Skopelos, ed è un’oasi naturale protetta; qui vivono le foche monache del Mediterraneo, che fino a qualche anno fa rischiavano l’estinzione. Non è possibile vederle, anche perché se ne stanno ben nascoste nelle grotte dell’isola.
Le vacanze, purtroppo, anche quest’anno sono finite. Il mattino seguente ci imbarchiamo: sbarchiamo a Aghios Costantinos, di fronte all’isola di Eubea, e passiamo dalle famose Termopili, luogo dell’epica battaglia tra Persiani e Spartani durante la II^ Guerra Persiana.
Un bel monumento ricorda il sacrificio del re di Sparta Leonida e dei suoi 300 spartani, che in così esiguo numero tennero testa per parecchi giorni all’immenso esercito del re persiano Serse. Proseguiamo alla volta di Patrasso, dove arriviamo verso le 18.00 dopo aver attraversato il canale di Corinto mentre una nave lo stava attraversando. Siamo stanchi, sporchi e tristi per la fine del viaggio, ma ci aspetta una bella cabina sul traghetto Superfast VI.
La nave parte verso l’Italia; una volta sistemati, ripuliti e riposati, ci accingiamo al nostro passatempo preferito: programmare il prossimo viaggio!!
Aspetti positivi del viaggio, secondo noi:
- i bellissimi panorami naturali
- luoghi affascinanti, ricchi di storia e di patrimonio archeologico e artistico
- la popolazione estremamente simpatica, disponibile ed ospitale
- scoprire un mondo molto diverso da quello che conosciamo, e cioè l’approccio verso la cultura mediorientale e orientale
-il costo della vita molto basso, rispetto ai nostri standard, per quanto riguarda la Turchia; la Grecia invece è ormai paragonabile all’Italia
Aspetti negativi del viaggio, secondo noi:
- la condizione delle strade in Turchia est è pessima, l’asfalto è scivoloso o estremamente grossolano, pieno di buche, e si incontrano facilmente lunghi tratti completamente sterrati
Qualche prezzo:
- traghetto Med Link da Çeşme a Brindisi 100 € a persona, in cabina 4 letti; 45 € per la moto
- traghetto Superfast da Ancona a Patrasso: 90 € a persona, in cuccetta; 38 € per la moto
- pranzo o cena in locanda, da 3 a 6 €
- pranzo o cena in un ristorante, da 8 a 10 €
Preparazione moto: Yamaha Tenerè XT600
- irrigidito e alzato la sospensione
- montato camere d’aria da fuoristrada
Ricambi portati: Yamaha Tenerè XT600
- candele
- camere d’aria
- filo frizione
- una bottiglietta d’olio
- kit antiforature (Touratech)
Inconvenienti occorsi:
- nessuno
Qualche informazione pratica:
- i distributori di benzina si trovano con frequenza, ogni 20, massimo 40 chilometri; nei tratti di autostrada della Turchia ovest ci sono nuovissime ed efficienti aree di servizio con distributori di benzina rossa, verde e gasolio, e in più ristoranti self service molto forniti e spesso anche un albergo
- in Turchia est non ci sono tratti autostradali, ma i distributori di benzina si trovano senza problemi
- i cartelli di indicazione di strade e paesi sono frequenti e scritti anche in inglese. In ogni caso, se avevamo dubbi abbiamo sempre trovato persone gentilissime pronte a darci indicazioni o ad accompagnarci sui luoghi
- durante gli spostamenti, per mangiare ci siamo, come sempre del resto, fermati nelle taverne frequentate da camionisti, dove in genere si mangia bene: dove vedevamo molti camion parcheggiati significava che la cucina era buona. In Turchia che ne sono tante.
-Guida utilizzata EDT - LONELY PLANET – TURCHIA
Chilometri totali percorsi: 7.300
Giorni impiegati 25