I SETTE PILASTRI DELLA SAGGEZZA

Sulle tracce di Lawrence d’Arabia **

3 moto nei deserti di Siria e Giordania

di Flavia Corsini e Enzo Schininà

 

Da sempre amanti dei deserti e dell’avventura, nella primavera 2003 decidiamo di ripetere il viaggio in Siria e Giordania, già effettuato nel 1996, con l’intenzione di riuscire a visitare alcuni luoghi che, nel viaggio precedente, abbiamo dovuto omettere per mancanza di tempo.

Decidiamo di imbarcarci a Igoumenitza per attraversare la Grecia del nord e poi la Turchia verso est fino alla Cappadocia, dove devieremo in direzione sud fino ad arrivare al confine siriano. Vista la difficoltà di reperire volontari per seguirci in questo viaggio, visitando paesi che tanta gente definisce “pericolosi”, tentiamo con un annuncio su Mototurismo per cercare compagni. Siamo molto fortunati e troviamo Tiziano, di Como, con Honda Varadero, e Enrico e Sarah, di Macerata, con Honda Shadow, che si uniscono a noi e alla nostra vecchia Yamaha Tenerè, già compagna di tanti chilometri tra la sabbia. Da questo viaggio nascerà una grande amicizia. All’ultimo momento, si aggregano anche Luca e Alessandra di Bologna (conosciuti tramite la comune passione per i cavalli), con una vecchia BMW stradale.

Partiamo a metà luglio, abbiamo tre settimane di tempo per la nostra avventura.

Io, Enzo, Tiziano, Alessandra e Luca ci imbarchiamo a Bari alle 18.00 e sbarchiamo a Igoumenitza alle 6.00 del giorno seguente; aspettiamo che arrivino Enrico e Sarah, che hanno preso un’altra nave e sono partiti da Ancona; appena arrivano facciamo colazione, qualche foto di rito, e partiamo attraversando la Grecia del nord. Passiamo Ioannina e Salonicco, quindi facciamo tappa a Kavala per la notte. Il mattino seguente entriamo in Turchia; l’attraversamento della frontiera turca è relativamente veloce (un’oretta), poi proseguiamo verso la prossima tappa, Istanbul. Ci fermiamo solo il pomeriggio e la sera per pernottare; abbiamo già visto questa splendida città varie volte, e soprattutto non c’è tempo per una visita accurata, ma uno sguardo alla Moschea Blu, a Santa Sofia, al Topkapi e al Bosforo all’ora del tramonto è veramente impagabile. Pernottiamo all’Hotel Kalyon: è un po’ costoso, ma riusciamo a trattare sul prezzo ed inoltre si trova in una bellissima posizione sul lungomare del Bosforo, a due passi dalla Moschea Blu.

Si cena a base dell’immancabile “doner kebab” (arrosto girato sullo spiedo verticale) in un localino tipico, veramente molto spartano, vicino a Santa Sofia, poi tutti a dormire. Si riparte il giorno seguente, direzione sud est; si fa sosta al lago salato, il Tuz Gölü, dai panorami lunari, per qualche foto, e la nostra corsa prosegue verso est. Man mano che inizia a fare buio i paesi diventano sempre più sperduti e lontani, lunghi tratti desertici si susseguono; ci ritroviamo a viaggiare di notte su una strada stretta e dissestata senza trovare nulla per fermarsi a dormire, con i camion turchi che ci sorpassano a folle velocità.

Non c’è nulla, non un paese, non un albergo. L’ora si fa sempre più tarda, siamo molto stanchi: ci fermiamo un attimo per decidere il da farsi, e siamo quasi convinti a stenderci qualche ora a dormire in un campo. Poi qualcuno propone di continuare ancora un po’: ripartiamo e, fortunatamente, dopo qualche decina di chilometri, come per magia appare l’insegna di un piccolo albergo, in un minuscolo paesino nei pressi di Pozanti.

La spesa è minima e le stanze sono confortevoli e pulite. L’alberghetto ha un ristorante all’ultimo piano, e nonostante sia mezzanotte riaprono la cucina solo per noi.

Il mattino seguente si passa la frontiera siriana; dopo 3 ore di pazienza, file interminabili, confusione ai massimi livelli, impiegati che non capiscono nessuna lingua e ti mandano inutilmente da uno sportello all’altro, pile di moduli da compilare, e con l’aiuto di un ometto al quale, alla fine di tutto, daremo una piccola mancia, siamo finalmente in territorio siriano. Dopo le foto di rito sotto al cartello che recita “welcome to Syria”, la nostra prima tappa è Aleppo. Passando dalla Turchia alla Siria, si ha la netta sensazione di essere in un altro mondo: se la Turchia è una via di transizione tra oriente e occidente, qui siamo veramente e in piena regola in Medio Oriente. Ce lo confermano i colori dei paesaggi, gli odori delle spezie nelle strade, i “chador” neri delle donne che svolazzano nel vento caldo, il caos infernale del traffico stradale con i clacson delle auto suonati incessantemente. Se i turchi guidano pericolosamente, i siriani e i giordani sono veramente micidiali: non esistono regole, vige la legge del più forte. La condizione delle strade non è paragonabile allo standard europeo: spesso non c’è segnaletica sull’asfalto, che è anche piuttosto scivoloso.

Arrivati ad Aleppo, troviamo posto all’Hotel Al Faisal, esattamente alle spalle del leggendario Baron Hotel, (dove soggiornarono Lawrence d’Arabia, Winston Churchill, Agata Cristie, Theodore Roosvelt: vi sono ancora i registri dell’epoca con le loro firme, e un bellissimo ritratto di Lawrence fatto a matita da uno dei suoi soldati).

Il giorno seguente si visita la città, indicata dagli studiosi come il più antico insediamento umano al mondo. Nel corso dei secoli ha subito devastanti terremoti e occupazioni dei più svariati eserciti, dai Romani ai Persiani, dai Bizantini ai Crociati e infine ai Turchi Ottomani. I segni della sua lunghissima storia sono tangibili ovunque.

La parte più suggestiva è la città vecchia, il cui nucleo è costituito dalle vie che formano il famoso suq; all’estremità orientale del suq, su una elevata altura, sorge la potente struttura difensiva della Cittadella, edificio imponente sia dall’esterno che dall’interno, dai cui bastioni si ammira tutta la città. La struttura visibile attualmente risale all’epoca crociata e Mamelucca. Dopo la visita alla Cittadella, con un caldo secco ma molto intenso, entriamo nel fantastico suq; non è vasto come Khan al-Kalili al Cairo o sontuoso come Kapali Carsi a Istanbul, ma senza ombra di dubbio è il più caratteristico di tutto il Medio Oriente. Qui tutti vengono a fare acquisti, e si trova veramente ogni genere di oggetto; dagli articoli casalinghi, ai gioielli, alle scarpe, agli abiti, alle spezie, ai generi alimentari.

Il suq è in gran parte una creazione di epoca ottomana; addentrandosi negli strettissimi e bui vicoli, bisogna fare attenzione a non essere investiti dai somarelli carichi delle più varie mercanzie. Naturalmente non si può resistere all’acquisto di souvenir, quindi stoffe damascate, sete, gioielli in argento beduino e persino uno strumento musicale simile ad un mandolino finiscono dai negozietti del suq alle nostre moto in un battibaleno. La sera si cena in un ristorante tipico, su una terrazza con vista sulla città illuminata: il menù consiste in un’infinità di ottimi “mezzé” (antipasti), insalate miste e kebab a volontà. E dopo tutti a prendere il tè al Baron, come Lawrence.

Il giorno dopo di nuovo in sella, direzione Qal’at Al Hişn, per visitare il poderoso castello crociato chiamato “Krak dei Cavalieri”. Le indicazioni scarseggiano, fa già buio, noi seguiamo una strada che ci ricordavamo andare nella direzione del Krak, quando siamo venuti nel 1996; naturalmente sbagliamo strada, vaghiamo per ore al buio sulle alture dell’Antilibano (siamo vicinissimi al confine col Libano in questa zona) finché non troviamo un albergo, dove decidiamo di fermarci. È un nuovissimo quattro stelle, posizionato in cima ad una collina, molto elegante; la stanchezza ci impone, nonostante l’aspetto costoso dell’albergo, di fermarci almeno a chiedere: fortunatamente, forse perché in una zona frequentata solo da turismo locale, i prezzi sono estremamente bassi. Ci godiamo una fantastica cena sul terrazzo dell’hotel, con vista notturna sui paesini sottostanti, tutti illuminati come un presepe, e dopo una bella dormita, il mattino seguente ripartiamo. Scopriamo di essere ad una ventina di chilometri dal Krak, e dopo un tragitto tutto curve e tornanti, finalmente vediamo in lontananza la sagoma imponente del castello.

Thomas Edward Lawrence, conosciuto dal mondo come un geniale condottiero e un coraggioso guerriero, era un realtà laureato in archeologia medievale. Egli definì il Krak come “il castello più bello al mondo”, e a giusta ragione; è incredibilmente ben conservato, ed è sicuramente una delle principali attrattive della Siria, da non perdere assolutamente. Immune al trascorrere dei secoli, sicuramente appare com’era 800 anni fa, ed è talmente grande e completo che si possono perdere parecchie ore nella visita. Dall’alto dei bastioni del Krak, che domina il Passo di Homs sulla catena dell’Antilibano settentrionale, si poteva avere il controllo su tutte le regioni interne della Siria; la fortezza, nella forma attuale, è stata costruita dai Cavalieri Ospitalieri intorno alla metà del XII° secolo.

Secondo la tradizione, Lawrence, scrisse al sua tesi di laurea sui castelli crociati proprio qui, nella bellissima cappella, in solitudine e con la sola luce di una candela.

Dopo la visita partiamo immediatamente verso la nuova meta, la perla del deserto, Palmyra. Facciamo sosta nella bella città di Hama per vedere le Norie, enormi ruote idrauliche in legno che misurano fino a 20 metri di diametro. Risalgono all’epoca degli Ayyubidi e servivano a convogliare l’acqua del fiume Oronte negli acquedotti, per poi defluire verso i campi e i giardini.

Delle oltre trenta Norie esistenti in epoca medievale ne rimangono diciassette, e sono in funzione solo in estate. Le Norie centrali sono proprio nel centro della città, in mezzo a parchi e giardini; altre sono sparse in vari punti di Hama. Le gigantesche ruote, nel loro eterno girare, producono un lamento lugubre, udibile a molti metri di distanza.

Lungo la strada che da Hama porta ad Homs, proprio sul ciglio della strada e, addirittura, sugli spartitraffico in mezzo alle auto, parecchie famiglie sono sedute sull’erba, con i loro tappeti e un pentolino di tè, a fare pic-nik. Ci sembra una cosa un po’ strana; potrebbero trovare luoghi più tranquilli ed appartati per trascorrere qualche ora di relax! Però dobbiamo dire che i siriani sono gente fantastica, la loro gentilezza ed ospitalità sono veramente uniche. Ogni volta che ci fermiamo, anche solo per chiedere un’indicazione, si formano capannelli di persone incuriosite intorno a noi e alle moto, ci fanno mille domande e insistono per offrirci un té o invitarci a cena a casa loro.

Continua la nostra cavalcata verso Palmyra, e arrivati ad Homs imbocchiamo la strada del deserto. Pian piano la vegetazione si fa sempre più rada, per poi lasciare il posto alle distese aride di sabbia. Il caldo si fa veramente intenso, ogni tanto ci fermiamo a scattare qualche foto e a bere un sorso d’acqua dalle nostre borracce.

L’arrivo a Palmyra è veramente suggestivo, lo ricordavamo ancora in modo indelebile dal 1996; dall’alto di una collina desertica, improvvisamente si apre la valle dell’oasi e della città antica. L’estensione degli scavi è enorme, dall’alto si vedono la bellissima via colonnata, il teatro intatto, l’imponente tempio di Bel, l’arco monumentale, come sospesi nel tempo e sulla sabbia dorata del deserto. Anche il marmo degli antichi edifici ha assunto il colore d’oro del deserto, come se la materia avesse voluto fondersi per fermare il tempo, e mostrare ai visitatori moderni gli splendori di una città che per pochi anni riuscì ad oscurare la potenza dell’impero romano.

La strada poi scende e attraversa il sito archeologico, consentendoci di fermare le moto sotto all’arco monumentale che accede alla via colonnata, così da poter scattare alcune foto veramente preziose per un motociclista; l’amata compagna di viaggio a due ruote insieme all’ambìta meta del viaggio stesso.

Oltrepassato il sito archeologico si entra nel paesetto; ci sistemiamo all’hotel Villa Plamyra, molto etnico e dai prezzi economici. Dopo una doccia ristoratrice s’è fatta l’ora del tramonto; niente di meglio che rimontare in moto per salire al castello arabo, che domina la cittadina, il sito archeologico e il deserto sottostante dall’alto di una arida collina. Anche da qui la veduta è splendida, e la luce del tramonto aggiunge all’oro del panorama sottostante il colore del fuoco.

Da qui si distinguono bene anche le torri funerarie, caratteristiche di Palmyra, che nel ’96 non abbiamo avuto tempo di visitare, e una pista in sabbia dove si svolge una tradizionale e famosa corsa di dromedari. Questa immagine è una delle più suggestive e memorabili dell’intero viaggio, a parere concorde di tutta la squadra.

Il giorno dopo si visita il sito, sulla cui storia si rende necessario fare brevemente luce.

Questo luogo, anticamente conosciuto col nome semitico di Tadmor (i siriani moderni ancora lo chiamano così) era un indispensabile luogo di tappa per le carovane che dal Mediterraneo si dirigevano verso i paesi del Golfo Persico, e un importante punto di collegamento lungo l’antica Via della Seta, che univa la Cina e l’India all’Europa. Quando i Romani spinsero le loro frontiere verso est Tadmor acquistò ulteriore importanza, come città cuscinetto tra l’Impero Romano e i Parti. Furono i Romani a dare alla città il nome di Palmyra, ovvero città delle palme (Palmyra si trova accanto ad un’oasi). La città, sempre più ricca e potente, da colonia romana divenne regno, retto dal saggio Odenato, grande amico di Roma. Ma il destino di Palmyra era segnato: Odenato venne assassinato, e il regno passò nelle mani della moglie di lui, la coraggiosa regina guerriera Zenobia; ella si ribellò a Roma, e alla testa del suo esercito sconfisse i romani e invase l’Egitto e la Palestina. L’imperatore Aureliano propose a Zenobia di trattare, ma ella rifiutò. Aureliano pose l’assedio a Palmyra, che alla fine capitolò: Zenobia finì a Roma in catene e la città, dopo aver tentato nuove ribellioni, venne completamente distrutta. Col trascorrere dei secoli Palmyra cadde nell’oblio, divenendo un piccolo villaggio di beduini accanto ad una distesa di rovine, e venne riscoperta solo nel 1678 da due mercanti inglesi.

Nella visita ci accompagna Alì, una guida beduina che ci ha indicato il gestore dell’hotel.

Alì è un beduino ma non è un nomade, ha una vera casa qui a Palmyra e possiede un negozio, ma arrotonda le entrate illustrando ai turisti le bellezze dell’antica città. Ci spiega anche le usanze della sua gente, e ci racconta che non è un’invenzione degli occidentali ma risponde a verità il fatto che, chiedendo in sposa una ragazza, un beduino deve pagare al padre della sposa una proporzionata dote in cammelli. Inoltre ci spiega che i beduini non devono sottostare alle leggi dello stato ma hanno una loro legislazione; al esempio, in caso di omicidio i parenti della vittima possono vendicarla uccidendo a loro volta l’assassino, e la legge siriana non li può incriminare. Davvero curioso!

Tutti coloro che vivevano di turismo, dopo i fatti dell’11 settembre 2001 hanno vita grama. Visitando Palmyra la prima volta, nel 1996, avevamo incontrato parecchi turisti, soprattutto viaggi organizzati. Adesso il sito archeologico è deserto, ci siamo solo noi e Alì.

Cominciamo la visita col grandioso tempio di Bel, che è la rovina più imponente del sito.

Bel era la principale divinità del pantheon di Palmyra: l’ingresso del tempio ha l’aspetto di una fortezza, cui fa seguito un enorme cortile racchiuso da una cinta muraria; al centro del cortile si trova la cella del tempio, decorata da bei bassorilievi e circondata da eleganti colonne. Uscendo dal tempio di Bel, si percorre l’imponente via colonnata, che ha inizio con un colossale arco; costituiva l’arteria principale della città ed era lunga settecento metri. Accanto alla via colonnata sorge il teatro, perfettamente conservato forse perché rimasto sepolto sotto la sabbia fino agli anni 50. Vi sono molto altri edifici, di cui si conservano tracce: le Terme di Diocleziano, il Tempio di Nebo, il Tempio di Bel–Shamin. Alì ci mostra anche una rovina costituita da un perimetro circondato da colonne, e ci spiega che questo viene ritenuto il palazzo di Zenobia: una parte delle colonne sono infatti costruite in granito egiziano, e potrebbero essere state portate qui dall’Egitto dopo la conquista da parte della regina palmirena.

Proseguiamo la visita con le torri funerarie, che sorgono in un sito denominato Valle delle Tombe. Queste costruzioni a forma di torre, destinate alle sepolture, vennero innalzate da famiglie benestanti della città. Ve ne sono parecchie, alcune molto ben conservate, altre in completa rovina. Le più belle sono chiuse al pubblico, e vengono aperte dal custode solamente previa richiesta. Alì riesce a farci aprire le più belle, al cui interno sono ancora visibili i loculi e i busti che ritraggono i defunti.

Si è fatta l’ora di pranzo, e ci facciamo indicare dalla nostra guida un locale dove poter assaggiare qualche specialità. Alì ci indica un ristorante nella piazzetta del paese, che ha una veranda ombreggiata dalle palme ed una fontana nel giardino, e ci consiglia di assaggiare gli spaghetti allo yogurt. La curiosità ci tradisce e ci ritroviamo in tavola un grande piatto pieno di spaghetti completamente scotti, immersi nello yogurt acido che fanno da queste parti, guarniti da qualche foglia di menta avvizzita. Posso assicurare che la scelta non è stata delle più felici.

Per fortuna ci rifacciamo con la cena: Alì ha insistito per invitarci tutti a casa sua, e così la sera ci gustiamo un’ottima piatto tipico siriano chiamato “magluba”, a base di riso, pollo, verdure e frutta.

Ceniamo seduti in terra, come usa qui, insieme alla famiglia di Alì: la moglie, molto timida in presenza di stranieri, e tre bei bambini.

Il mattino dopo, molto a malincuore dobbiamo ripartire da Palmyra. Prima di rimetterci in sella, dalla vetrata panoramica della sala da pranzo dell’hotel, posta all’ultimo piano, vediamo i primi raggi del sole del mattino dipingere d’oro la Via Colonnata. I colori di Palmyra saranno per noi uno spettacolo indimenticabile.

Scendiamo in strada; le valige sono presto montate, i motori ruggiscono nel vento del deserto: siamo ancora “on the road”, di corsa in direzione di Damasco.

Il disco solare si fa sempre più alto nel cielo; le temperature in questa stagione sono piuttosto elevate, di giorno superano spesso i 45 gradi.

Arriviamo in tarda mattinata a Damasco. Anche questa è una città dalla storia antichissima, che ha conosciuto molti conquistatori illustri: Re David di Israele, Nabucodonosor di Babilonia, i Persiani, Alessandro Magno. Fu poi conquistata dai Nabatei e dai Romani, e con l’avvento dell’Islam dagli Omayyadi e dai Selgiuchidi. Qui arrivarono addirittura i Mongoli di Tamerlano, cui seguirono i Mamelucchi; in epoca recente, divenne parte dell’Impero Ottomano, in seguito liberata dalle truppe ribelli al comando di Lawrence. Dopo la Grande Guerra, la Francia ottenne un mandato sulla Siria durato fino al 1946, anno nel quale finalmente Damasco ottenne la piena indipendenza. Adesso è una città grande e caotica, una distesa di cemento e inquinamento nella quale vivono circa sei milioni di persone.

Possiede però un interessante centro storico, che conserva tracce dell’urbanistica romana e islamico-medievale, un labirinto di vicoli serpeggianti così stretti che in alto le case si toccano. C’è un bel suq, chiamato Suq al-Hamidiyya, costituito da una strada acciottolata sulla quale si susseguono colorate botteghe, ed è coperto da una volta di ferro ondulato che lascia passare solo pochi raggi di sole, dando al suq un’atmosfera di penombra che ricorda la grotta di Alì Babà. Proseguiamo la visita con la vicina splendida moschea degli Omayyadi, uno dei più notevoli monumenti dell’Islam e l’edificio più importante di tutta la Siria. In termini di splendore decorativo e architettonico la moschea può essere paragonata solo alla Cupola della Roccia di Gerusalemme, mentre per sacralità è seconda solamente alle sacre moschee di Mecca e Medina. Per entrare io, Sarah e Alessandra dobbiamo indossare due lunghi abiti forniti di cappuccio, per coprire i nostri abiti europei non appropriati. Per tutti, è fatto obbligo togliersi le scarpe. C’è un cortile pavimentato in marmo bianco, contornato da un bel colonnato; accedendo all’interno della moschea, si rimane abbagliati dall’eleganza e dalla ricchezza delle decorazioni. Al centro, dentro una struttura marmorea con una cupola verde, si trova la tomba di san Giovanni Battista, che per i musulmani è il profeta Yehia; secondo la tradizione, durante la costruzione della moschea venne rinvenuto un cofanetto sepolto sotto il pavimento di una vecchia basilica, in cui era contenuta la testa del personaggio biblico, con la pelle e i capelli ancora intatti, resti che oggi si trovano all’interno della tomba.

Abbiamo concluso la visita del centro storico di Damasco, e decidiamo di guadagnare tempo prezioso ripartendo subito in direzione sud, puntando direttamente al confine giordano.

Qui le operazioni in frontiera ci costano un paio d’orette. Arriviamo sul far della sera nelle vicinanze del Mar Morto, dove decidiamo di fermarci a pernottare; giunti ad Amman ci facciamo indicare la strada da una coppia di poliziotti in moto.

Dovete sapere che in Giordania è vietato ai cittadini possedere motociclette, il cui utilizzo è riservato esclusivamente alla polizia. Re Hussein prese questa decisione a fronte dell’elevatissimo numero di incidenti gravi che si verificavano, dal momento che i giordani non si distinguono per una guida particolarmente prudente!!

La strada che da Amman porta al Mar Morto scende velocemente nella depressione naturale in fondo alla quale si trova il mare più salato del mondo, dove non sopravvive nessuna forma di vita. Man mano che scendiamo, la temperatura si fa soffocante, nonostante siano già passate le nove di sera; il caldo è torrido e umido, il buio è completo. Siamo in fondo alla depressione, costeggiamo il Mar Morto in cerca della Rest House che offre bungalows e spiaggia a prezzi modici, ma arrivati là la troviamo chiusa. Un gruppetto di beduini accampati nelle vicinanze ci offre le loro tende per dormire, ma con questa temperatura urgono una doccia e una stanza con aria condizionata; quindi li ringraziamo e proseguiamo, nel buio pesto, sulla strada che costeggia il mare. Fortunatamente, più avanti avvistiamo le insegne luminose di due grandi alberghi, il Marriott e il Mövenpick; vista l’ora ormai tarda e il grado di stanchezza piuttosto elevato, decidiamo per una sera di rovinarci e pernottare in un hotel di lusso, visto e considerato che probabilmente non troveremo nessun altro ricovero lungo la strada. Entriamo nel parcheggio del primo che incontriamo, il Mövenpick: chiedono 200 dollari a notte per la camera doppia, e decidiamo di fermarci. Le camere da sole valgono la spesa, e dopo una rilassante dormita, dedichiamo la mattinata successiva al bagno nel Mar Morto; si galleggia nell’acqua salatissima, riuscendo a stare addirittura seduti a leggere un giornale. Bisogna fare molta attenzione, però, a non bagnarsi gli occhi o eventuali escoriazioni della pelle, perché l’altissima concentrazione di sali brucia terribilmente; inoltre, ingerire quest’acqua può essere addirittura mortale.

L’hotel è dotato anche di diverse piscine, di cui una splendida, con cascata e panorama sulla costa israeliana del Mar Morto: proprio di fronte a noi si vedono benissimo le case di Gerico, mentre Gerusalemme è leggermente più arretrata verso l’interno ma comunque individuabile in lontananza.

A mezzogiorno lasciamo le camere per rimetterci in cammino; intanto il caldo avanza, i nostri termometri segnano oltre i 50 gradi, ed è circa mezzogiorno quando ci mettiamo in strada con direzione Petra. La temperatura è degna di un girone infernale, e ringraziamo le giacche da moto a maniche lunghe che ci riparano dal calore eccessivo. Arriviamo al tramonto a Wadi Mousa (fiume di Mosè), il paesino che cela l’ingresso della magica città nabatea di Petra.

Dopo esserci sistemati in albergo, cerchiamo una taverna per cenare. Wadi Mousa ha risentito moltissimo della situazione venutasi a creare dopo l’11 settembre: la ricordavamo piena di vita, la sera le stradine del paese erano costellate da negozietti di souvenir e locande, c’era tanta gente in giro. Adesso molti locali sono chiusi e non si vede per strada anima viva, tant’è che gli unici turisti in cerca di un ristorante questa sera siamo noi. Questa situazione è triste e problematica per gli abitanti del luogo, che traevano dal turismo gran parte del loro sostentamento.

L’indomani si effettua la visita di Petra. Su di lei sono stati scritti fiumi di parole, e difficilmente le parole riescono a renderle giustizia; l’unico modo per capirla è vederla. Molto del fascino di Petra (che significa roccia, in greco) deriva dalla sua posizione sul ciglio del Wadi Araba, dove le ripide e aspre colline formano un canyon profondo. L’accesso più facile è attraverso il “siq”, una stretta gola che fende i massi serpeggiando, con pareti alte 200 metri. L’arenaria ha colori che vanno dal rosso, al ruggine, al rosa, al giallo, all’azzurro e al grigio; in questo friabile materiale i Nabatei costruirono gli splendidi edifici rupestri, scavandoli nelle pareti delle montagne. I Nabatei erano una tribù nomade proveniente dall’Arabia occidentale, che si insediò in questa regione nel VI° secolo a.C. e che si arricchì dapprima con i saccheggi, poi imponendo un pedaggio alle carovane dei mercanti. Col tempo Petra divenne la capitale di un fiorente impero, che si spingeva a toccare la Siria e Roma. Dopo alterne vicende, i romani la conquistarono e ne modificarono l’urbanistica secondo i canoni di quell’epoca, fornendola di una via colonnata, di un teatro, di terme. Il declino di Petra iniziò in epoca bizantina; per un breve periodo vi risedettero i Crociati, che vi costruirono un forte, ma negli anni successivi la città venne completamente dimenticata, tanto che nessuno ne conosceva più l’esistenza tranne i beduini, che conservavano gelosamente il segreto. Nel 1812, il giovane esploratore svizzero J.L. Burckhardt udì casualmente la gente del luogo parlare di straordinarie rovine nascoste tra le montagne del Wadi Mousa. Burckhardt vestiva abiti arabi, parlava la lingua alla perfezione, e si era addirittura convertito all’Islam; facendosi passare per un beduino e con la scusa di sacrificare una capra ad Aronne, la cui tomba si troverebbe in fondo alla valle, riuscì a farsi condurre a visitare le meravigliose rovine di Petra, facendole in seguito conoscere a tutto il mondo. 

L’edificio più famoso ed il primo che si incontra al termine del “siq” è Al-Khazneh, “il Tesoro”; scavato nei massi di arenaria ferrosa, ospitava la tomba di un re. Dalla bellissima facciata si accede ad una grande sala vuota, nella quale si trovava il sarcofago; la luce migliore per ammirare Al-Khazneh è il mattino presto oppure il tardo pomeriggio, quando la luce del sole si incunea nella gola del “siq” facendo apparire la facciata incandescente. In altri momenti della giornata invece, Al-Khazneh si trova completamente in ombra. Proseguendo lungo il sentiero si incontra uno straordinario complesso di oltre 40 edifici, tra tombe e case, e di fronte a questi un maestoso anfiteatro che disponeva di 3000 posti per gli spettatori.

Sulla destra, proseguendo, si incontrano le mirabili “tombe reali”, scolpite nella parete del Jebel al-Khubtha: da qui saliamo a dorso di dromedario e percorriamo tutta la via colonnata, dove rimangono i resti di alcuni pilastri, per fermarci dove essa finisce e inizia la mulattiera che conduce al bellissimo edificio chiamato “Monastero”.

L’ascesa al Monastero è ripidissima, come ben ricordiamo per averla già fatta nel 1996, e inoltre il caldo è veramente opprimente; pertanto decidiamo di utilizzare i somarelli. Giunti in cima, lasciamo le nostre cavalcature e ci fermiamo ad ammirare la facciata dell’edificio, simile a quella di Al-Khazneh ma più grande e meglio conservata. Anch’esso è di epoca nabatea, quasi sicuramente era una tomba, ma le croci scolpite sulla facciata lasciano supporre che in epoca bizantina sia stato utilizzato come luogo di culto.

Il ritorno dal Monastero lo facciamo a piedi. Dirigendoci nuovamente verso Al-Khazneh, e seguendo le indicazioni di una mappa che ci hanno dato in albergo, iniziamo l’arrampicata verso gli obelischi. I sentieri sono ripidissimi e il rischio di cadere nel baratro, mettendo un piede in fallo, è veramente alto; la fatica però viene ricompensata dal meraviglioso panorama della vallata che si può ammirare dall’alto, una volta giunti sulla sommità della spianata. Ad un certo punto della salita perdiamo il sentiero principale, avventurandoci senza direzione per la montagna; dopo aver fatto il macabro incontro con lo scheletro di un asino, decidiamo di tornare indietro. Finalmente incontriamo un rustico chiosco che vende bibite, gestito da due ragazze di circa vent’anni. Ci fermiamo a bere qualcosa di fresco e facciamo amicizia con loro, che ci presentano un’amica, la quale vende oggetti artigianali beduini; inizialmente essa indossa il “chador” che le copre completamente il corpo e il volto, poi, preso coraggio, si scopre almeno il viso.

È l’ora di chiusura, le ragazze abbandonano il loro chiosco e si offrono di farci strada, per mostrarci alcuni luoghi di Petra poco conosciuti. Le seguiamo entusiasti, e devo proprio dire che questa sarà una delle esperienze più belle del viaggio. Dietro alle ragazzine, che a piedi scalzi si arrampicano, veloci come stambecchi, sulle rocce scoscese (noi siamo molto più impacciati e a corto di fiato), arriviamo ad una rupe dove sorge un antichissimo altare sacrificale nabateo (Al-Mabdah, Altura del Sacrificio); qui facciamo un po’ di foto, utilizzando Sarah come vittima sacrificale, poi, percorrendo mulattiere ripidissime, correndo varie volte il rischio di precipitare nel vuoto, arriviamo ad una roccia che si affaccia a picco sull’ Al-Khazneh. È uno spettacolo di sconvolgente bellezza, che poche persone possono dire di aver visto.

Le nostre amiche si offrono di farci strada fino all’uscita per un sentiero “segreto” (anche questo è una ripida mulattiera, più adatta a capre che a esseri umani), che renderà il tragitto molto più corto. Ci avviamo dietro di loro, ormai distrutti dalla fatica; l’uscita sembra non arrivare mai, i piedi e le gambe sembrano di pietra e si rifiutano di muoversi. Finalmente il sentiero finisce, e ci ritroviamo all’entrata del “siq”; ci sediamo a riposare sfiniti, e il proprietario di una bancarella che vende artigianato beduino ci offre il tè, forse impietosito dalle nostra facce distrutte. Ci mettiamo a chiacchierare a alla fine rimediamo anche un invito a cena. Nonostante la stanchezza, non possiamo rifiutare. Enzo e Tiziano intanto portano a casa le due ragazze in moto: esse fanno parte di una tribù di beduini, che fino a pochi anni or sono vivevano negli edifici rupestri all’interno del sito archeologico. Re Hussein li ha “sloggiati” costruendogli un paese di vere case di cemento, che si trova tra la Grande Petra e la Piccola Petra; potete immaginare le facce dei compaesani quando hanno visto arrivare le ragazzine su due moto europee, accompagnate da altrettanti motociclisti europei! Feste e saluti a non finire, e inviti a cena. Gli inviti però vengono gentilmente declinati, visto che abbiamo già un impegno col nostro ospite precedente, che in compagnia del fratello, organizza per noi un barbecue all’aperto nel deserto, nella spianata dove si accede alla “Piccola Petra”.

Con la sola luce delle stelle e del falò sul quale viene posta la griglia, ci sediamo tutti in circolo a chiacchierare (in inglese più o meno comprensibile) con i due giordani, con la compagnia di qualche scorpione e qualche volpe del deserto che nel buio vengono a cercare gli avanzi del pasto.

Anche questa sarà un’esperienza bellissima e indimenticabile.

Il mattino seguente andiamo al paese delle ragazzine, che ci hanno promesso di accompagnarci a visitare la Piccola Petra: arrivati là, veniamo subito fatti accomodare sugli immancabili tappeti, e la loro famiglia, molto onorata della nostra visita, ci offre tè in quantità industriale. Dopodichè, le ragazze salgono ambedue sulla moto di Tiziano, al posto del passeggero, e tutti insieme arriviamo alla Piccola Petra, un sito simile a Petra ma di dimensioni più ridotte. C’è un “siq” lungo circa 400 metri che si apre in uno spiazzo dove sorge un tempio, sempre scavato nella roccia, ed alcune stanze, la cui identificazione non è ancora chiara.

Questo sito non è frequentato dai già rari turisti, siamo completamente soli e per questo la visita è ancor più suggestiva. All’uscita, le ragazze ci fanno strada sotto la tenda di un capo tribù beduino, accampato nelle vicinanze: ci vogliono assolutamente offrire il tè, e facciamo parecchie foto insieme a loro prima di ripartire alla volta di Wadi Rum.

Il bellissimo deserto roccioso di Wadi Rum, uno dei più conosciuti teatri delle gesta di Lawrence d’Arabia, è un posto unico al mondo. Il paesaggio è stupefacente, dalla sabbia rosso oro emergono montagne rocciose imponenti e selvagge: qui vivono solo dromedari, scorpioni e beduini Howeitat, antica tribù di predoni nomadi che si allearono con Lawrence durante la guerra di liberazione del paese dal dominio del decadente impero ottomano. Gli Howeitat da predoni nomadi si sono trasformati in stanziali, hanno costruito il piccolo insediamento di Rum che comprende qualche casa di cemento, una scuola, qualche negozio e il forte “Beau Geste”, quartier generale della “Desert Patrol Corp”, (Polizia del Deserto).

Vivono di pastorizia, producono oggetti artigianali, alcuni portano in giro per il deserto i turisti con i fuoristrada o con i dromedari, qualcuno offre la tenda per dormire nel deserto in cambio di un piccolo compenso.

Parcheggiamo le moto e saliamo sul cassone di un Toyota pick-up, macchine fotografiche alla mano, per una emozionante corsa nel deserto. Il beduino guida a una velocità folle sulla sabbia: ci accompagna nei punti più belli, tra le gole rocciose, a vedere i graffiti preistorici, poi sulle dune di sabbia rossa più alte di tutto Wadi Rum, e infine si ferma in un punto dove il tramonto è particolarmente spettacolare da ammirare. Immagini indimenticabili del tramonto infuocato si fissano nella nostra memoria in maniera indelebile.

Dormiamo sotto una tenda beduina, e sotto le stelle.

Il giorno seguente la luce dell’alba ci sveglia, sotto la tenda: Enrico e Sarah ci lasciano, hanno una settimana di ferie meno di noi e devono iniziare il tragitto che li riporterà a casa. Commossi ci salutiamo, con la promessa di tenerci sempre in contatto telefonico durante i rispettivi viaggi di rientro.

Rimangono quindi Flavia, Enzo, Tiziano, Alessandra e Luca.

La prossima tappa è Aqaba, dove vorremmo concederci almeno un giorno di riposo al mare. Non sarà così. Aqaba è una città in verità poco interessante, affacciata sul Mar Rosso e sull’omonimo golfo. Non ha spiaggia, c’è solo un porto commerciale; gli hotel hanno un servizio di navette che porta i clienti alle spiagge più a sud, verso il confine, molto vicino, con l’Arabia Saudita.

Avevamo inizialmente anche l’idea di passare nel Sinai per godere di qualche giorno di riposo al mare, con uno dei traghetti che partono da Aqaba e approdano a Nuweiba, ma ci rendiamo conto di non avere abbastanza tempo, né tanto meno il “carnet de passage” che l’Egitto richiede per l’importazione della moto.

Quindi partiamo sulla via del ritorno che ci riporterà a nord, per riattraversare la Giordania in direzione Siria. Ci fermiamo a visitare Madaba, città antichissima, la Medeba citata nella Bibbia.  È internazionalmente nota per i bellissimi mosaici di epoca bizantina. Il più famoso è custodito nella chiesa di San Giorgio e raffigura una particolareggiata carta geografica con 157 didascalie in greco di tutti i principali siti menzionati nella Bibbia, dal Libano all’Egitto fino al Mediterraneo, inclusi il Nilo, il Mar Morto, Gerusalemme e la Chiesa del Santo Sepolcro.

Al tramonto arriviamo a Jerash, dove ci fermiamo per visitare l’antica città romana, seconda per importanza solamente a Petra. L’antica Gerasa divenne una città di una certa importanza all’epoca di Alessandro Magno; in seguito alla conquista romana da parte di Pompeo, entrò a far parte della Decapoli, ovvero un gruppo di città commerciali romane collegate tra loro da strade lastricate che consentivano una circolazione veloce ai carri. Gerasa prosperò fino alla conquista musulmana, poi ebbe inizio il suo declino. Per visitare il sito ingaggiamo una guida: il nostro giro inizia con il colossale Arco di Adriano, e prosegue con l’ippodromo, che si trovano in posizione leggermente decentrata rispetto alla parte principale del sito stesso; in questa parte principale invece si trovano la maggior parte degli edifici più interessanti: si possono ammirare un grande tempio di Zeus, e quindi il Teatro sud, che poteva ospitare 5000 spettatori. Si arriva poi alla bellissima Piazza Ovale, ovvero il Foro di Gerasa: 56 colonne ioniche, restaurate, circondano la grande piazza dalla forma insolita, creando un colpo d’occhio davvero straordinario. Camminando lungo il “cardo maximus”, che vanta ancora una parte delle sue 500 colonne, in direzione nord-est, si incontra ciò che resta del primo di due “tetrapylon”, poi i gradini di una chiesa bizantina, e più avanti ancora un elegante ninfeo, la più importante fontana ornamentale della città. Ancora più avanti, sulla sinistra, su una piccola collina, il tempio dedicato alla Dea patrona di Cerasa, Artemide. È ben conservato, e restano in piedi 11 delle 12 colonne originali; una di esse ha la particolarità di oscillare visibilmente, col vento o con la pressione delle mani. Intorno al tempio si trovano rovine di parecchie chiese.

All’incrocio del Cardo Maximus con il Decumanus Settentrionale si trova il secondo Tetrapylon, poi scendendo la collina si incontrano gli enormi “bagni occidentali” e il secondo teatro di Gerasa, il Teatro Nord, magnificamente restaurato, che arriva a contenere 2000 spettatori. Al termine della visita è pomeriggio inoltrato; la nostra guida ci chiede un passaggio a casa, e Tiziano, che è solo, lo fa salire ben volentieri. Arrivati a destinazione, veniamo invitati subito in casa a bere tè, e il nostro amico insiste per trattenerci a cena e a pernottare. Ci dispiace deluderlo, ma vogliamo fare ancora un po’ di strada in direzione nord; pertanto, dopo il tè, dobbiamo ripartire. Arriviamo in tarda serata a Irbid, e qui dormiamo, in uno scadente hotel.

Il mattino seguente passiamo nuovamente il confine tra Siria e Giordania. Lasciamo a malincuore questo paese: i giordani, come i siriani, sono un popolo veramente aperto ed ospitale, di una gentilezza senza pari. Siamo ritornati in Siria dove, dove vogliamo visitare alcuni siti che abbiamo tralasciato all’andata. Il primo di essi è Bosra, luogo strano e magnifico; oltre a possedere il teatro romano meglio conservato che esista, racchiuso in una fortezza araba, il resto della città è costruito quasi interamente da blocchi di basalto nero intorno e sopra gli antichi resti di edifici romani, con uno strano miscuglio di stili architettonici. Anche Bosra è una città antichissima, conosciuta già dagli egizi nel 1300 a.C.; divenne per breve tempo la capitale dei Nabatei, quando Petra inizio a perdere di importanza, e fino al Medioevo da qui passavano i pellegrini diretti alla Mecca. In epoca ottomana però, questo percorso non veniva più considerato sicuro, quindi la città scivolò nell’oscurità; tuttora è poco più di un grande villaggio.

Arrivando nel centro di Bosra, per primo si incontra il Teatro, bellissimo e imponente, anch’esso realizzato completamente in basalto nero tranne le colonne della scena, che sono in marmo bianco avorio. Poteva contenere 15.000 spettatori, e il suo ottimo stato di conservazione forse è dovuto al fatto che è rimasto sepolto sotto la sabbia fino al XX secolo. Intorno al teatro fu costruita, in epoche successive, una imponente cittadella fortificata costituita da otto torri unite da spesse mura. Parcheggiamo le moto; per visitare la città antica ci facciamo accompagnare da una carrozzella, trainata da un cavallino grassottello e dal mantello baio bello lucido: il proprietario è molto orgoglioso del suo cavallo, ci racconta che a casa ne ha un altro altrettanto bello, e nel frattempo ci illustra i misteri dell’antica Bosra. Trotterellando lungo il lato settentrionale del teatro, si raggiunge la suggestiva città vecchia, che non si può definire un sito archeologico a sé stante, ma appare inglobata nella cittadina. Poiché la maggior parte degli edifici si trovava sepolta sotto la città attuale, è stato realizzato un progetto per trasferire gli edifici moderni e riportare alla luce la città di epoca romana. L’effetto è suggestivo e sorprendente, sembra di visitare una città fantasma. Si riconoscono le strutture delle terme, di un ninfeo, di un arco e di una colonna nabatei, e di altri edifici non meglio identificati. A sud sono stati effettuati scavi su un palazzo romano, oltre ai quali si trova una enorme cisterna romana di 120 x 150 metri, chiamata comunemente Birket al-Haj, “Vasca del Pellegrinaggio”.

Per quanto risulti difficile descriverlo a parole, sicuramente questo è un dei siti che più vale la pena di visitare, durante un viaggio in Siria.

Prossima tappa sulla via del ritorno è nuovamente Damasco, dove pernotteremo, per avere anche l’occasione di visitare ancora una volta il suq.

A Damasco troviamo un buon albergo tre stelle, economico e in posizione strategica perché vicinissimo al centro storico. Prima di cena facciamo quindi un giro nel vasto suq; è impossibile resistere alla tentazione di acquistare oggetti di artigianato locale, come le famose stoffe “damascate”. Terminato lo shopping, decidiamo di concederci una cena in un ristorante a 5 stelle, all’ultimo piano di un palazzo con vista notturna sulla città, dove mangiamo in abbondanza per la considerevole cifra di circa 5 euro a testa.

Partendo da Damasco, l’indomani, ci dirigiamo a Maalula, paesino costruito a ridosso dei monti dell’Antilibano. Qui non c’è nulla di particolare da vedere: la sua singolarità consiste nel fatto che, nonostante la presenza di alcuni musulmani, la maggior parte degli abitanti appartiene alla chiesa cattolica di culto greco, e il villaggio è un antico centro del cristianesimo.

La maggior parte della popolazione locale si esprime in un dialetto derivante dall’aramaico, la lingua parlata da Gesù. Visitiamo il Monastero di San Sergio; la porta di entrata è talmente bassa che è necessario chinarsi per passare. All’interno c’è una piccola chiesa bizantina con un altare circolare, che viene indicato come il più antico del cristianesimo.

La ragazza che ci fa da guida ci racconta la storia della chiesa, e recita per noi il “Pater Noster” in aramaico.

Usciti dal Monastero telefoniamo ai nostri amici Enrico e Sarah, che nel frattempo, sulla via del ritorno in Turchia, si sono fermati a visitare la bellissima Cappadocia.

Nel tardo pomeriggio, con la luce del tramonto, proseguiamo sempre in direzione nord e ci fermiamo a visitare Apamea. Costruita in granito grigio, sorge su un’alta brughiera erbosa affacciata sulla vallata di Al-Ghab. Era stata costruita in epoca ellenistica, poi divenne romana. L’elemento principale delle rovine è il cardo, la via principale che va da nord a sud: segnato per gran parte della sua lunghezza da due file di colonne parallele, si estende per due chilometri ed è più lungo di quello di Palmyra. Le colonne recano insolite decorazioni e alcune hanno delle scanalature a spirale, caratteristica che si riscontra solamente ad Apamea. Ci sono anche i resti di un ninfeo, e proseguendo lungo il cardo si incontra un bel portico situato davanti ad un colonnato. Non c’è nessuno oltre a noi a visitare le rovine solitarie di Apamea, il sole è ormai tramontato dietro le montagne e solo un debole di vento sibila in mezzo all’elegante colonnato e tra le erbacce che crescono ovunque.

Riprendiamo la strada e aggiriamo Qala’at al-Mudiq, la cittadella imponente che sorge in cima ad uno sperone roccioso immediatamente ad ovest delle rovine di Apamea, nel sito dove anticamente si trovava l’acropoli.

Tornando verso Aleppo è già buio, e sulla strada incontriamo di tutto: trattori e camion che circolano contromano e a fari spenti, animali vaganti, motorini con sopra tre o quattro persone; e nessun veicolo rispetta precedenze o semafori. Poi vi sono capannelli di gente che fa pic nik al centro degli spartitraffico, nell’oscurità, tra le macchine e i camion che sfrecciano. È incredibile!!

Arrivati ad Aleppo pernottiamo sempre al medesimo hotel dell’andata, e il giorno seguente facciamo un’ ultima visita al suq e un nuovo carico di “chincaglierie”, tra le quali i famosi narghilé con il loro tabacco alla frutta.

Ne acquistiamo uno anche per Enrico e Sarah; glie lo consegneremo al ritorno in Italia.

Alla fine dello shopping, con le moto caricate all’inverosimile, i nostri acquisti ben fissati dai “ragni” elastici che sembrano scoppiare da un momento all’altro, saliamo nuovamente in sella, con meta il confine turco. Il passaggio delle due frontiere ci impegna per le solite due ore; ritornati in Turchia, troviamo un clima molto umido, contrariamente al caldo secco della Siria e della Giordania. Ci fermiamo a dormire a Mersin, città grande e anonima sul mare, e l’indomani proseguiamo lungo l’interminabile costa turca del Mediterraneo. Lungo il tragitto ci fermiamo per una breve visita a Myra, dove si può ammirare il bel sito archeologico, ricco di tombe rupestri licie scavate direttamene nella parete della montagna e di un grande teatro romano ben conservato. Nel vicinissimo paesino di Demre, invece, c’è la chiesa di San Nicola (Noel Baba in turco), risalente al III° secolo d.C. Vi furono sepolte le spoglie di San Nicola, che gli occidentali chiamano Babbo Natale. La chiesa non è imponente come Santa Sofia né ricca di mosaici come la chiesa di Chora a Istanbul, ma si riscatta per la venerabile dignità conferitale dall’età e per le leggende di cui è ammantata.

Proseguiamo ancora e velocemente visitiamo le bellissime tombe rupestri di Fethije, l’antica città licia di Thermessos. Le tombe sono scavate nella parete della montagna, e le facciate ricordano quelle dei templi greci di ordine ionico. Proseguiamo ancora e arriviamo a Olimpos, antica e potente città licia, oggi grazioso sito di mare ai piedi dell’omonimo monte Olimpos. Sulla sommità del monte scaturiscono dalla roccia straordinarie fiammelle, generate da un gas naturale sconosciuto, che si infiamma a contatto con l’aria. Il fenomeno era noto già nell’antichità greco-romana, e si credeva che sotto le rocce dimorasse un mitico mostro con la testa di leone, il corpo di capra e la coda di drago; le fiammelle sarebbero state prodotte dal suo respiro. Veniva chiamato “Chimera”, e questo è il nome dato al fenomeno ancora oggi. Olimpos possiede una bellissima e incontaminata spiaggia di ciottoli, con acqua cristallina: un torrente scorre tra la folta vegetazione circostante e si getta nel mare, e tra la vegetazione e lungo il letto del torrente sono sparsi i suggestivi ruderi dell’antica città. Qui ci fermiamo a pernottare; il giorno appresso proseguiamo per lo sperduto e poetico paesino di pescatori chiamato Ukagiz, dove ci fermiamo per un giorno intero di meritato riposo. La nostra giornata di ozio si svolge in un lungo giro in barca, nelle acque limpidissime di fronte all’isola disabitata di Kekova. Quest’isola ospita solamente vegetazione e i ruderi suggestivi di una città bizantina, in parte sommersa. Le rovine sott’acqua si distinguono bene anche stando sulla barca, e usando un secchio al cui fondo è sta applicato un vetro si riescono a distinguere, sul basso fondale, addirittura cocci di anfore e monete antiche. Qui è vietato effettuare immersioni, per ovvi motivi.

Fortunatamente questo luogo è sconosciuto al turismo di massa, passano da queste acque solo i caicchi e le barche dei pescatori.

Purtroppo il nostro viaggio sta volgendo al termine. Torniamo verso la “civiltà” e ci spostiamo ancora a nord; ci fermiamo a dormire a Selçuk, in un grazioso hotel arredato con mobili d’epoca, e il mattino seguente andiamo a visitare le vicine grandiose rovine di Efeso.

Efeso è la città classica meglio conservata del Mediterraneo orientale, e nell’antichità fu un centro commerciale e religioso di grandissima importanza, nonché il cuore del culto di Cibele. Celebre per il suo fascino e per la sua ricchezza, da città greca divenne romana, e nonostante venisse in seguito saccheggiata dai Goti, nel 431 d.C. godeva ancora di grande notorietà. È bene ricordare che qui sorgeva il famosissimo Tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo antico. Oggi di questo edificio rimane in piedi un’unica colonna, molto rovinata, situata in un terreno paludoso lontano dal sito archeologico. Subito dopo l’ingresso del sito, percorrendo la via Arcadiana, ancora lastricata dall’antichità, si raggiunge il Teatro Grande, originariamente edificato in stile ellenistico e abilmente ricostruito dai romani. La scena e le gradinate sono perfettamente conservati, tanto che viene utilizzato per spettacoli. Dal teatro, percorrendo la via Sacra, si giunge alla Biblioteca di Celso, la cui imponente ed elegante facciata decorata da statue, nicchie e portici è divenuta il simbolo stesso di Efeso. A fianco si trova la Porta di Augusto. Oltre la Biblioteca di Celso, si prosegue sulla Via del Cureti, sulla quale si affacciano molti edifici ben conservati; da non perdere sono il Tempio di Adriano e la Fontana di Traiano. La Via dei Cureti termina presso la Porta di Ercole, nelle cui vicinanze si trova un colossale Tempio dell’imperatore Domiziano, il Pritaneo, il Tempio di Hestia Boulaea e l’Odeon, piccolo teatro capace di 1400 posti. A Efeso si può visitare anche una piccola casa, in località chiamata Meryemana, indicata fin dal Rinascimento come l’ultima dimora della Vergine Maria.

Bisogna però dire che questi siti sono invasi da maree di turisti, in forte contrasto con i luoghi solitari e poetici che abbiamo toccato durante questo incredibile viaggio; le bellezze imponenti di Efeso perdono così molto del loro fascino, ma non per questo si poteva tralasciarne la visita.

Nel primo pomeriggio, dopo un pasto frugale, ripartiamo verso Canakkale, dove dobbiamo traghettare sull’altra sponda dei Dardanelli. Sfortunatamente poco prima di arrivarvi il nostro amico Tiziano scivola su una macchia d’olio fuoriuscita dal motore rotto di un’auto turca e cade con la moto. Se la cava con qualche livido ma il suo Varadero ne esce parecchio malconcio: il manubrio è piegato, le valige distrutte (verranno legate, con il loro contenuto, col nastro isolante), il pedalino di sinistra irrimediabilmente rotto, la carenatura completamente rovinata. Passiamo la prima parte della nottata cercando un posto di polizia per fare denuncia dell’incidente, e una volta trovatolo, la seconda parte a far capire ai poliziotti, che non né parlano inglese né alcuna altra lingua oltre il turco, cosa era successo. Dopo molti tentativi, stanchi e scoraggiati, riusciamo a farci capire a gesti, e riusciamo a far scrivere al poliziotto una specie di denuncia dell’incidente. Finalmente possiamo andare a dormire, e troviamo un albergo per passare ciò che resta della notte. L’indomani, sistemata la moto incidentata alla meno peggio con l’aiuto di alcuni benzinai turchi che ne raddrizzano il manubrio, traghettiamo dall’altra parte dello stretto; nel primo pomeriggio facciamo frontiera con la Grecia e per pernottare ci fermiamo a Veria, (vicino a Verghina e alle famose tombe della famiglia reale macedone).

Il giorno dopo attraversiamo la Grecia del nord e nel tardo pomeriggio arriviamo a Igoumenitza per imbarcarci, dopo un tragitto stradale tutto curve e tornanti per oltrepassare i monti del Pindo. Domani saremo di nuovo in Italia.

Abbiamo percorso in totale 8.900 chilometri, visitato luoghi fantastici che abbiamo apprezzato ancora di più perché “conquistati” faticosamente, con tanti chilometri alle spalle.

Il momento del ritorno a casa e dei saluti ai compagni di viaggio è sempre il più difficile: il meraviglioso e indimenticabile viaggio è purtroppo finito, ma per risollevare i morali la medicina migliore è progettare un nuovo viaggio. Pertanto ….. è già in cantiere IRAN 2004!!

 

** “I Sette Pilastri della Saggezza” (The Seven Pillars of Wisdom), così si intitola il grandioso romanzo che Thomas Edward Lawrence, conosciuto dal mondo come “Lawrence d’Arabia”, scrisse per raccontare le sue incredibili gesta , che ebbero come teatro il Medio Oriente e in particolare la Giordania, la Siria, l’Egitto e l’Arabia. Lawrence, figlio illegittimo di un nobiluomo inglese, si laureò in archeologia e intraprese scavi in Palestina e in Siria. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, grazie alla sua profonda conoscenza della cultura e della lingua araba, che parlava alla perfezione, compresi numerosi dialetti, divenne un agente dei Servizi Segreti Britannici. Arrivò a capeggiare la rivolta araba contro l’impero Ottomano, portando alla definitiva vittoria l’esercito dei ribelli arabi e gli alleati inglesi. Tornato in Inghilterra con grandi onori e col grado di colonnello, partecipò attivamente alla creazione degli stati che formano il moderno Medio Oriente, difendendo appassionatamente l’indipendenza degli arabi dalle grandi potenze europee, che cercavano di spartirsi quanto rimaneva del decaduto impero ottomano. Poi, stanco e deluso, volle sfuggire alla celebrità nascondendosi nell’anonimato; cambiò il suo nome in Ross e si arruolò nella Raf come semplice aviere, poi come meccanico. Appassionato motociclista, morì in un misterioso incidente in moto, il 19 maggio 1935. Non è mai stata chiarita la dinamica dell’incidente: si suppone addirittura che sia stato provocato dagli stessi Servizi Segreti Britannici, in quanto c’era il sospetto che Lawrence fosse stato contattato dai nazisti, per avere il suo aiuto quale profondo conoscitore dello  scacchiere mediorientale.

APPUNTI DI VIAGGIO

KM. PERCORSI        8.900          

ASPETTI POSITIVI

-        Paesaggi splendidi

-        Grande ricchezza di siti archeologici da visitare

-        Estrema disponibilità, gentilezza e ospitalità delle persone

-        Basso costo della vita

ASPETTI NEGATIVI

-        In luglio e agosto le temperature arrivano facilmente vicino ai 45/48 gradi

ACCESSORI E RICAMBI AL SEGUITO

-        Camere d’aria

-        Olio x rabbocco

-        Kit antiforatura

-        Bomboletta di FAST

-        Filo della frizione

-        Chiavi, cacciaviti, nastro isolante, fascette, colla

INCONVENIENTI OCCORSI

-        La caduta di Tiziano, scivolato sull’olio uscito dal motore rotto di un’auto, con le conseguenze descritte nel racconto e un notevole danno economico per la riparazione; a tutt’oggi non è ancora riuscito ad ottenere il rimborso dall’assicurazione turca, nonostante il responsabile dell’incidente, ovvero il proprietario della macchina che ha perso l’olio, abbia dato lo scarico all’ assicurazione medesima.